7 maggio 2020

NAULOCO


 NAULOCO

Nauloco (in greco antico: Ναύλοχα, Náulocha in Appiano, significa "rifugio per le navi") fu un'antica città della Sicilia settentrionale situata tra Mylae (odierna Milazzo) e capo Peloro (o più verosimilmente Capo Rasocolmo, vicino al villaggio Acqualadrone)

Il ritrovamento del rostro di una nave romana nel mare antistante il Villaggio Acqualadroni, dove sono nato, ha destato la mia curiosità al punto da farmi documentare oltre a fare delle ricerche su quel periodo storico.



Intanto va considerato che il rostro è sicuramente appartenuto ad una nave romana danneggiata in una vicina battaglia navale. Per non farla affondare al largo, fu fatta arenare sulla battigia di allora, molto più avanzata rispetto ad oggi;  la potente erosione esercitata dal mare in oltre due millenni, ha fatto ritirare la spiaggia di circa 300 metri. I racconti dei miei nonni avallano l'esito di tale potente erosione, mi hanno infatti raccontato che oltre l’attuale battigia c’erano grandi orti coltivati e dopo ancora una larghissima spiaggia dove i pescatori stendevano al sole le reti da pesca.



L’altra considerazione è che la nave romana abbia partecipato ad una battaglia navale svoltasi nelle immediate vicinanze. Effettivamente nel 257 a.C. nel mare di Tindari si svolse una battaglia navale, alla quale quasi sicuramente aveva partecipato la nave romana danneggiata e fatta arenare davanti ad Acqualadroni.

Battaglia di Tindari



La battaglia di Tindari fu una battaglia navale minore della prima guerra punica che ebbe luogo al largo di Tyndaris, in Sicilia nel 257 a.C.
Anche sullo svolgimento di questa battaglia si hanno scarse notizie. Polibio lo storico greco che in massima parte ci fornisce i dati la descrive in poche righe.
«...il console Gaio Atilio, essendo approdato a Tindari ed avendo osservato che la flotta cartaginese navigava [...] in ordine sparso...»
(PolibioStorie, I, 25, BUR. Milano, 2001. trad.: M. Mari.)
Il console Gaio Atilio Regolo era approdato a Tindari. Una descrizione così "tranquilla" fa pensare che la città fosse passata in mani romane (o almeno siracusane) tanto da permettere l'uso delle strutture da parte della flotta romana. Gaio Atilio vide che la flotta cartaginese incrociava al largo di Tindari senza mantenere la formazione riuscendo quindi più vulnerabile.
Immediatamente partì l'ordine di attacco e, senza attendere il resto della flotta, Gaio Atilio, con dieci navi si lanciò contro le navi dei nemici.
I Cartaginesi non ci misero molto a notare che le rimanenti navi romane erano anch'esse disorganizzate; alcuni equipaggi si imbarcavano lentamente e solo qualche nave cominciava a salpare; Gaio Atilio era praticamente solo. Visto ciò i comandanti cartaginesi accettarono lo scontro; virarono di bordo e si lanciarono contro le navi romane.

La flotta punica doveva essere abbastanza numerosa perché Polibio ci dice che i cartaginesi "circondarono" le navi romane e le distrussero. Mancarono però di catturare la nave del console e il suo equipaggio; la nave -dice Polibio- era "veloce nella navigazione" e "con un ottimo equipaggio".
Lo scontro prese un secondo aspetto quando il resto della flotta romana arrivò sul teatro della battaglia. I Romani si radunarono disponendosi in linea, in formazione di battaglia. Il risultato fu la cattura di dieci navi cartaginesi complete di equipaggio e l'affondamento di altre otto. Il resto della flotta cartaginese, di cui sfortunatamente non conosciamo l'entità, riuscì a fuggire e a riparare alle isole Lipari. Ma non tutte le navi romane, in quella battaglia navale uscirono indenni, almeno una, danneggiata si all'ontanò imbarcando acqua e dirigendosi verso lo stretto di Messina, che non riuscì a raggiungere e prima di affondare fu fatta arenare sul bagnasciuga, nel luogo a quel tempo deserto dove oggi sorge Acqualadrone.



Torniamo al Nauloco

In tutti questi secoli gli storici si sono, giustamente, affannati nel cercare di individuare la località chiamata Nauloco, giacché nessuno storico antico ha dato descrizioni sufficienti a poterne individuare con certezza il sito. Con gli appunti che gli studiosi ci hanno tramandato e con le ricerche fatte appositamente in questi anni, ho tentato di capire dove potesse essere localizzato l'importante approdo. Tindari sulla costa sicula  e l’area posta a nord-ovest di capo Tindari, cioè immediatamente a nord della città di Patti.

Secondo quanto ci tramandano gli storiografi antichi, la località denominata appunto Nauloco faceva parte di un più vasto territorio chiamato dell'Artemisio, dove cioè predominava il culto per Artemide, la Diana dei Romani. Di tale area il centro vitale e propulsore era l'impianto templare di Diana Facellina (templum Facellinae Dianae). Nelle lacunose ed incerte indicazioni degli storici e nei riferimenti che essi fanno ad episodi politici e militari avvenuti in questa zona non vi sono indicazioni precise circa l'ubicazione di questa ultima località. Chiaro risulta, però, che essa aveva attinenza col Nauloco, vuoi per la vicinanza, vuoi perché sotto la sua influenza politica e soprattutto economica.

Prima di procedere ad ipotizzare i siti del Nauloco e del Diana Facellina è opportuno descrivere, almeno sinteticamente, le strutture presenti nei luoghi e le finalità che tali importanti centri avevano. Il Nauloco era un porto protetto ed ovviamente chiuso con una o più chiostre o saracinesche spalmate di pece, per cui presero anche il nome di cleiseis. Il punto più stretto era di solito segnalato da un fuoco o da una lanterna, ricavata in grosse buche scavate nella roccia, nelle quali si accendevano dei fuochi a mo' di faro per i naviganti. I fianchi erano protetti da torri per le guardie. L'imbocco (stoma) era non molto largo e posizionato fra protezioni naturali. In fondo si trovava il porto vero e proprio al riparo dai flutti e di facile protezione (muchos). Il porto, al suo interno, era organizzato in maniera da poter ospitare le navi, costruirle e, quando necessario, ripararle. Molto spesso il muchos era in acque relativamente poco profonde, in quanto era molto più semplice e più sicuro realizzare l'opera presso le foci dei fiumi, se a loro volta queste erano protette da formazioni naturali. La piana che da Milazzo (nella quale si è tentato fino ad oggi di localizzare il Nauloco) si estende fino a Capo Tindari, non presenta condizioni geomorfologiche tali che possano far supporre, anche prima della sua completa formazione, la possibilità dell'esistenza di strutture naturali con le caratteristiche sopra menzionate. Questo è un altro dei motivi che inducono a ipotizzare l'ubicazione del Nauloco a occidente di Capo Tindari. Andiamo ora a esaminare la situazione orografica della vallata esistente fra Monte Giove e Capo Calavà.

E' questa una valle di recente formazione alluvionale, poggiante in alcuni punti su rocce, in altri su argille di vario tipo. Le formazioni rocciose o argillose assumono nelle carte geologiche una sorta di forma ad imbuto, la cui parte più stretta si trova nel torrente Timeto all'altezza dell'attuale ponte sulla SS 113 , in località Case Nuove Russo. Ricostruendo una sezione geologica della zona immediatamente a monte del ponte, risulta che i depositi alluvionali, geologicamente non databili, hanno uno spessore di circa 32-35 metri nella zona centrale. Di conseguenza il terreno roccioso e argilloso sul quale poggiano gli alluvionali si riscontra a quota assoluta di 8-10 metri, che risultano sufficienti per far galleggiare navi di piccolo e medio tonnellaggio, quali erano le imbarcazioni di quel periodo.  E' da tenere conto che in quei tempi l'entroterra siciliano era ricchissimo di foreste, gli attuali torrenti erano fiumi e che era irrisorio il trasporto verso valle di materiali alluvionali. Questo fenomeno infatti è nato e si è sviluppato man mano che le colline venivano disboscate. I versanti perdevano così la loro naturale armatura costituita dalle radici degli alberi. E' pure probabile che la presenza di un cantiere navale potesse trovare giustificazione dall'esistenza di grandi quantità di alberi di alto fusto e che indirettamente anche il disboscamento abbia contribuito al progressivo insabbiamento del porto. 

L'esistenza di una insenatura profonda e comunque molto più accentuata dell'attuale è rilevabile dalle carte topografiche della Sicilia antica. 
Dalla sovrapposizione delle carte che riportano la situazione dal I sec. a.C. fino ad oggi, si vede chiaramente la progressiva riduzione dell'insenatura fino ai livelli attuali. Risulta chiaro che il trascinamento a valle di materiale detritico-alluvionale ha provocato il progressivo insabbiamento del porto. Un tale fenomeno, anche consistente come quello in esame, può completarsi nel giro di pochi decenni. Per una più chiara visione della zona, basta osservare la cartina geologica, nella quale sono pure riportate le condizioni orografiche dell'area. L'imbocco al porto era costituito da un passaggio obbligato formato da due colline rocciose (monte Russo e monte Perrera) con pendii in forte declivio verso il torrente. Questo passaggio poteva essere benissimo lo stoma. Superato questo, immediatamente alle spalle di monte Russo, vi è un'ampia insenatura naturale, chiusa a sud da un'altra formazione rocciosa, più alta della prima e dalle pareti più ripide; stesse condizioni si trovano ad est dell'imbocco. Tutta quest'area poteva benissimo essere il muchos. Questa zona oggi viene chiamata Sipio. In cima ai monti Perrera e Russo sono visibili due fosse dalle dimensioni di m 5x4, profonde m 3,50, scavate nella roccia arenaria. Dalla posizione delle buche si domina completamente sia l'area a nord, cioè lato mare, sia la zona del muchos. Da lì è stato possibile vedere, sul monte Perrera, una serie di scale e di pianori scavati artificialmente nella roccia. Tutto l'impianto, ancora in ottime condizioni, ha l' aspetto di un piccolo sistema per la guardia e la trasmissione di segnali, oltre a svolgere la funzione principale di indicazione del porto.

Sul posto e nella piccola valle immediatamente a ridosso di esso, lato sud-est, in superficie, si trovano cocci di terracotta provenienti da tegole e da vasi di varie dimensioni, che si possono far risalire, da un sommario esame, ad un periodo che va dal IX sec. a.C. al II sec. d.C. Reperti simili sono stati rinvenuti pure nella fossa dopo il suo disboscamento: sono testimonianze quantomeno di una frequentazione con presenza continua, come richiedevano le necessità militari dei luoghi.

Il tracciato della Via Consolare Valeria si sviluppava nell'entroterra ed attraversava il torrente Timeto in località Ponte Vecchio, che si colloca immediatamente a monte della presunta zona del Nauloco, in terreno poco acclive e quindi adatto per installare accampamenti militari.
Accertata l'esistenza delle reali condizioni per l'allocazione del Nauloco, per completare il quadro complessivo del territorio riflettiamo su come fossero organizzate le aree su di esso gravitanti e che destinazione avessero. La valle, della quale il centro era il Nauloco e il Facellinae Dianae, era quella compresa fra Capo Tindari e Capo Calavà, delimitata dagli storiografi, da Capo Tindari da un lato e dal Peloro dall'altro. Il termine Peloro, secondo me, ha innescato confusione con l'attuale Capo Peloro, mi sembra impossibile che il Peloro cui fanno riferimento gli storici sia quello di Messina.
Questa località è, infatti, troppo distante dalla zona di guerra per essere coinvolta tanto spesso. E' invece presumibile che il Peloro o la Peloriade fosse una località più prossima al golfo di Patti. Il termine Peloris (Πελωρίς) in greco si traduce in "mostro, cosa portentosa". Pelorios (Πελωρίος) vuol dire spaventoso, mostruoso, enorme conchiglia. Peloro, in greco Pelor (Πελωρ) significa mostruoso, cosa portentosa. Guardando la costa da mare risulta chiaro che una simile denominazione poteva essere data solo all'attuale Capo Calavà, che sembra una conchiglia mostruosa di colore giallognolo. Questo promontorio è la propaggine del monte Meliuso o Melinso (Gioiosa Guardia) che dal greco Melizo (Μηλίζω) o Meleios (Μηλειζοσ) significa di colore gialliccio o colore delle cotogne, giusto il colore della rocca di capo Calavà. Come si vede, le indicazioni tratte dalla etimologia greca, porterebbero ad indicare il Peloro non a Messina ma a Capo Calavà, che fra l'altro è chiusura naturale di una vallata ben protetta, naturalmente fortificata e perfettamente idonea per l'insediamento e lo sviluppo di due importanti centri quali il Nauloco e il Facellinae Dianae.




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