4 dicembre 2023

Scoperto un pianeta troppo grande per la sua stella


6 novembre 2023

CERASUOLO DI VITTORIA.

 


Cerasuolo di Vittoria D.O.C.G.

60% Nero d’Avola
40% Frappato

 

Dalle campagne di Dorilli, tra il mare e i monti Iblei, conosciuti come luogo di eccellenza del food in Sicilia, nasce il Cerasuolo di Vittoria. Il nome dell’unica DOCG di Sicilia deriva da “cerasa”, la ciliegia in dialetto siciliano. È ottenuto dalle varietà autoctone Nero d’Avola e Frappato. Un vino unico, riconoscibile e indimenticabile per i suoi sapori giovanili e i profumi di ciliegia, fragola e melograno, dovuti alla particolarità dei suoli e del clima in cui sono coltivate le uve. Un vino che come pochi coniuga tradizione e piacevolezza del vino.

Diraspapigiatura seguita da 14 giorni di permanenza sulle bucce, fermentazione a 23 °C.

Cerasuolo, Frappato e Nero d’Avola: l’essenza dei vini di Vittoria

Seppur circoscritta a sole tre aziende (quattro se aggiungiamo la recente recensione di Valle dell’Acate), l’immagine dei vini dell’area di Vittoria esce ben delineata: nessuna presenza di toni surmaturi, estrazioni tanniche calibrate e gradi alcolici contenuti. Al di là delle momentanea prevalenza di una tipologia rispetto all’altra, si riesce quindi a ricavare l’impressione di un’enologia precisa e ben curata che preserva l’integrità del frutto e privilegia l’equilibrio, rinunciando probabilmente, ma consapevolmente, a qualche aspetto caratteriale meno controllabile.

Il CERASUOLO DI VITTORIA è un rosso di forte ed antica tradizione, che gioca la sua identità sul connubio fra la forza del Nero d’Avola e la gentilezza del Frappato, vitigno diffuso principalmente nell’area di Denominazione, la prima ed al momento unica DOCG sicilianaLA VINIFICAZIONE: Le uve, vendemmiate dopo la metà di settembre, vengono vinificate in acciaio con breve macerazione a temperatura controllata. Dopo la fermentazione malolattica in acciaio, il vino viene imbottigliato ed immesso in commercio circa un anno dopo la vendemmia.

Fondata da coloni greci nel 734 a.C., Siracusa era nell’VIII secolo a.C. una delle città più importanti dell’intera area mediterranea, solo qualche anno dopo sorsero Roma e Napoli, mentre in Grecia si istituivano le polis. Si tratta di uno dei momenti più alti della nostra civiltà. Alla città sicula si è sempre accostata la presenza del mitico Biblino, un vino dolce che, fno a qualche anno fa, si pensava fosse l’antenato dell’odierno Moscato di Siracusa, mentre recenti ricerche lo mettono in relazione con Gaglioppo e Frappato. In effetti si tratta presumibilmente di un vino dolce rosso originario del Libano, prodotto anche in Grecia e poi, appunto, nel siracusano. Dunque, la Sicilia sud orientale già allora aveva assunto una certa rilevanza nel panorama vitivinicolo. Sulle coste dell’area iblea i coloni siracusani fondarono, nel 598 a.C., Camarina, oggi sito archeologico alla foce del fume Ippari. La complessa disputa siciliana tra Fenici e Greci è annoverata nelle guerre greco-puniche tra il 600 e il 265 a.C., anno dell’arrivo dei Romani sull’Isola. Secondo Michajl Rostovcev, storico russo tra i massimi esperti di storia greca, romana e persiana, l’interesse dal punto di vista agricolo era distribuito in base alla differente vocazione dei popoli: i cartaginesi puntavano alla coltivazione del grano, i siracusani e i camarinesi continuavano un’intensa attività vitivinicola e olivicola. A Roma, intorno al 500 a.C., agli albori dell’età Repubblicana, i vini greci provenienti da Lesbo, dalla Grecia orientale e dalle coste turche erano considerati il meglio dell’enologia dell’epoca, allo stesso modo non tardarono a farsi conoscere quelli della Magna Grecia e, in particolare, della Sicilia sud orientale. I reperti archeologici di epoche successive documentano la grande attività di produzione del vino nelle aree aretusa e iblea, proprio in quelle zone furono ritrovate delle monete sulle quali erano impresse immagini di anfore per il trasporto del vino. A largo di Camarina e di Scoglitti (lo scalo marittimo di Vittoria), furono ritrovate delle anfore vinarie che testimoniano la produzione e il commercio del liquido verso Roma, la Gallia e la Spagna. A Pompei, sono stati reperiti alcuni contenitori di terracotta risalenti al II secolo a.C., sui quali era impressa la scritta Mesopotanium, “la terra compresa tra i due fumi”, l’Ippari e il Dirillo che segnano i confni dell’odierna zona del Cerasuolo di Vittoria. Non solo il vino ibleo, ma anche quello proveniente da tutta la provincia orientale, da Messina a Catania fno al Val di Noto (è maschile perché “Vallo”), era menzionato dai grandi storiograf e letterati dell’epoca, da Catone a Plinio, a Strabone, di quest’ultimo le entusiastiche testimonianze sul Mamertino e le motivazioni della bontà di tutti i vini della zona orientale: «Il fatto che tale regione è ricca di viti si potrebbe congetturare che dipenda dall’agro di Catania che, ricoperto di ceneri (vulcaniche), produce buon vino in abbondanza». Verso la fne dell’Impero Romano, in uno dei periodi più turbolenti della sua storia, durante il dominio vandalo, ostrogoto e bizantino, l’agricoltura subì un decadimento sostanziale, in particolare la viticoltura non vide progressi a differenza di quel che si verifcava nel resto d’Europa, dove il vino costituiva una delle migliori merci di scambio. Intorno all’800 d.C. arrivarono le conquiste arabe, uno dei momenti più importanti per la storia dell’Isola. Le innovazioni nel settore agricolo, in primis l’uso dell’acqua, sono ampiamente conosciute anche se la viticoltura non fu l’ambito favorito. Michele Amari, storico palermitano e Ministro della pubblica istruzione del Regno dal 1862 al 1864, studioso della Sicilia musulmana, scrisse: «I vigneti scemarono sotto la dominazione musulmana; e sì lentamente si rifornirono in due secoli, che la Sicilia faceva venir vini da Napoli verso la fne del XII». Nonostante la lungimirante politica agricola di Federico II (basti pensare alla distribuzione di terre incolte ai contadini per la coltivazione del grano), la situazione non migliorò, complicata dalla centralità del suo potere. Dal 1200 la viticoltura siciliana rimane in una posizione subalterna per almeno tre secoli, in particolare nella parte sud orientale, a causa della sua funzione di fornitrice di grano, la cui redditività era piuttosto bassa. La dominazione spagnola, col suo rapace fscalismo, fu incapace di risolvere il problema delle fnanze pubbliche e di far avanzare l’Isola da uno stato di forte arretratezza. Mentre in Europa si gettavano le basi delle grandi industrie vinicole francesi e spagnole, la Sicilia restava in una posizione di svantaggio. Le testimonianze del tempo sui vini siciliani sono scarse, ma se ne sancisce la bontà. Ne scrive Andrea Bacci nel suo De naturali vinorum historia (1596) riferendosi alla qualità dei vini dell’Etna, del siracusano e di Noto. Siamo nel punto nevralgico del nostro percorso storico. Nel 1606, la nobildonna Vittoria Colonna Henriquez, contessa di Modica, fondò Vittoria e immediatamente incentivò la produzione del vino concedendo privilegi a coloro i quali avessero piantato vigne: in quell’anno regalò, ai primi settantacinque coloni, un ettaro di terreno ciascuno a condizione che ne coltivassero un altro a vigneto, favorendo così un’enorme espansione nelle varie contrade del territorio. Per tutto il Seicento il vigneto vittoriese crebbe a dismisura. Il vino veniva esportato prima nelle altre città della contea di Modica e poi, attraverso il porto di Scoglitti e grazie alle navi trapanesi e mazaresi, anche a Malta e Marsiglia. La qualità dei vini del sud est è ampiamente trattata da Paolo Balsamo nel suoi appunti di viaggio attraverso la Contea di Modica (1808). L’abate asserisce che dalla campagna di Vittoria, ricca di vigneti, si produce un vino che considera il migliore tra quelli da pasto di tutta la Sicilia. Inoltre ci fornisce importanti informazioni sull’uvaggio del tempo: «Non è composto quasi di altre viti che di grossonero, di calabrese ed incomparabilmente più da frappato». Il forentino Domenico Sestini, trasferitosi a Catania come bibliotecario al servizio del principe di Biscari, fornì un’importante testimonianza sulla vitivinicoltura del ragusano nella lezione che tenne nel 1812 all’Accademia dei Georgofli sui vini di Vittoria, elogiandone la qualità e descrivendo i vitigni, il sistema di impianto e di coltivazione, la fertilità dei terreni, le modalità di vendemmia e vinifcazione. Dunque, da più parti, i vini di Vittoria e di Avola erano considerati tra i migliori, insieme ai Marsala. Tra l’altro, nella seconda metà dell’Ottocento si verifcò un ulteriore sviluppo economico e la città di Vittoria divenne una delle più foride e produttive della Sicilia. In questo periodo ci fu un massiccio processo di riconversione di migliaia di ettari, prima coltivati a grano, trasformati a frutteto e vigneto. A tale trasformazione contribuì la crescita della domanda di vino e il relativo aumento dei prezzi, complice il progresso tecnologico che rese più facile e redditizia la coltivazione. Il porto di Scoglitti fu potenziato per fare fronte alle richieste dei vini; nel 1860 l’esportazione dall’agro di Vittoria toccò i 300mila ettolitri (oggi ne vengono prodotti circa 15mila), in particolare verso la Francia che, nel frattempo, aveva subito i terribili danni della fllossera. La domanda aveva stimolato la creazione di nuovi impianti, al punto che vennero sradicati anche oliveti secolari. La fllossera non tardò ad arrivare: comparve in SSicilia nel 1880 in provincia di Caltanissetta, due anni dopo in provincia di Messina. Nel 1898 apparve anche a Salemi e Marsala, causando un forte periodo di crisi. A Catania, fu fondata, nel 1881, una scuola di viticoltura ed enologia, cui fecero seguito le Regie Cantine e i Regi Vivai di Viti americane. Un’utilissima attività di ricerca e sperimentazione fu svolta anche dalla Regia Cantina Sperimentale di Noto che sorse nel 1889. La Cantina gestiva gli stessi vivai di Noto, di Siracusa e Vittoria e si occupò di ricostruire i vigneti distrutti dall’afde, coadiuvando l’attività con conferenze, corsi pratici, distribuzione gratuita e vendita sotto costo di barbatelle innestate. Vittoria pagò a caro prezzo la scelta monocolturale; migliaia di piccoli proprietari caddero in rovina, totalmente privi di capitale per procedere ai reimpianti, la ricostruzione avvenne soprattutto grazie alle grandi famiglie proprietarie terriere. Dopo il 1891 la caduta della domanda di vini da taglio rese antieconomico il ripristino dei vigneti danneggiati e la superfcie subì un decremento, i vigneti francesi, austriaci, ungheresi erano stati ricostruiti, i mercati si chiusero e le esportazioni diminuirono toccando il punto più basso nel 1907. Da quel momento, la Sicilia strutturò la sua produzione sui vini da taglio e mezzo taglio, togliendo spazio a zone vocate e a vitigni adatti (nelle contrade di Vittoria il Frappato in particolare) a dare vini fni da pasto.

Ho fatto cenno alla crescente esportazione vinicola siciliana, quintuplicata tra il 1870 e il 1882. L’eccezionale impennata — i cui centri principali erano Messina, Siracusa, Catania e Trapani — aveva carattere essenzialmente congiunturale. Era guidata dallo straordinario incremento della domanda proveniente dal mercato internazionale e, in particolare, da quello francese. La crescente dipendenza del settore dai passeggeri andamenti del mercato estero, nonostante il ruolo non secondario di quello nazionale, sollecitava gli osservatori più attenti ad avanzare critiche, perplessità e denunce sul tema della qualità del prodotto. Le preoccupazioni erano manifestate dallo stesso Ministero dell’Agricoltura circa la composizione della produzione vinicola, formata in gran parte da vini da taglio diretti specialmente in Francia. Nella provincia di Siracusa tre erano i principali vini da taglio prodotti: il Siracusa considerato uno dei migliori, di grande corpo, profumato, vellutato, il Pachino, sotto il quale nome andavano tutti i vini prodotti nel territorio di Noto, Avola e Pachino, lo Scoglitti prodotto nella piana di Vittoria, tra i comuni di Chiaramonte, Comiso e Scoglitti. Si prediligevano le zone più calde, vicine al mare. I vini da pasto, nonostante non fossero determinanti nell’economia isolana, mostravano qualità che ancora oggi li rendono famosi nel mondo. Basti pensare all’Etna, al Faro e, appunto, al Cerasuolo di Vittoria. Negli anni cinquanta i vini forti erano ancora destinati a rimpolpare quelli prodotti nel Nord Italia e in Francia. I produttori si mossero verso il potenziamento della produzione che sembrava essere l’unica possibilità di mercato. Questa scelta condizionò la ripresa del settore vitivinicolo, travagliato da problemi la cui portata si era fatta negli anni del Fascismo e della Guerra, sempre più grave. In ogni caso, per incremento di impianti, Vittoria si collocava tra le prime zone, insieme alla piana di Catania, a Milazzo, e all’Etna. Per reazione, negli anni settanta, si è arrivati a pensare che la salvezza fosse rappresentata dalle Cantine Sociali, pulite, raffreddate, enologicamente a norma, rispetto ai Bagli poco attrezzati, legati a una fattura dozzinale di vini da taglio. Si era posta la necessità di orientare la produzione ma anche i consumi. L’export di sfuso è passato da quasi due milioni di ettolitri del 1999 a poco più di 150 mila del 2009, con una perdita del 90%. La Francia (dove lo sfuso è ancora oggi usato per correggere la gradazione alcolica e il colore, in particolare nel bordolese), che era il mercato principale fno agli anni novanta, oggi compra vino spagnolo, più economico di quello italiano. E anche se nel frattempo è più che raddoppiato l’export siciliano in bottiglia, la crisi è evidente. Soprattutto nel trapanese, che con una superfcie vitata di quasi 60mila ettari è il secondo distretto vinicolo in Europa per dimensioni, dopo quello di Bordeaux, e da solo copre la metà della produzione siciliana. Soldati affronta la questione vini da taglio con la sua sagacia quando, in occasione del primo viaggio di Vino al Vino del 1968 si reca nelle province di Catania, Siracusa e Palermo. Riporta aneddoti spassosi alla ricerca di vini che non avessero un’alcolicità – lui, da bravo piemontese ci tiene a segnalarlo – così elevata, e comunque ci fornisce avvincenti testimonianze di carattere socio-politico-culturale. Ecco la parte più incalzante del suo intervento: «Lo scopo della legge sul non zuccheraggio dei vini era ben altro, era molto semplicemente quello di aiutare i baroni viticoltori dell’Italia meridionale in particolar modo di Puglia e Sicilia a vendere i loro mosti, provenienti da terre bruciate dal sole e non irrigate, ricchi di zucchero generatore di alcool. Nacque così lo scongiurato “meridionale” come lo chiama il De Marchi, che cita prima sul romanzo “Giacomo l’idealista” del 1897. Nacque il famoso taglio che tanta parte ha nella decadenza dei nostri vini e soprattutto delle nostre capacità di gustare il vino. Una vera rovina, sia per i vini settentrionali e centrali, che nel taglio si alteravano, sia per gli stessi vini meridionali che fatalmente cominciarono ad essere conosciuti dai consumatori del nord solo attraverso l’impiego che se ne faceva nel taglio, mentre vinifcati sui loro posti e con uve vendemmiate non così tardi avevano tutt’altro sapore. La tradizione meridionale infatti voleva che le uve fossero raccolte non come accade dopo la promulgazione della legge e cioè preoccupandosi prima di tutto del raggiunto grado di dolcezza, ma vendemmiate prima, a tempo giusto, quando non sono ancora così cariche di zucchero». Tra l’altro, ancora oggi, il grado Babo delle uve e dei mosti e il grado alcolico nei vini sono ancora parametri fondamentali per stabilirne il prezzo.

Rispetto ai precedenti approfondimenti sul Meridione vitivinicolo, abbiamo considerato (almeno) due vitigni. Nelle altre occasioni abbiamo cercato di rilevare la relazione tra una varietà e uno o più territori per provare a comprenderne il temperamento. La bellezza del vino del sud est siculo è legata a questo straordinario equilibrio delle parti, una congiunzione astrale: Nero d’Avola e Frappato, così sovraesposto il primo tanto da divenire “simbolo”, quanto esclusivo e rivelatorio il secondo. Il nero d’Avola trae benefcio da questi luoghi, le condizioni pedoclimatiche gli conferiscono un’eleganza tutta particolare. Ho spesso sentito dire: «Il nero d’Avola, qui, sta bene sul calcare». Limitandoci al nostro luogo d’interesse, il vittoriese, i 190 ettari delle denominazioni “Cerasuolo” e “Cerasuolo classico” vedono prevalente il Nero d’Avola seguito di poco dal Frappato. Questa situazione rispecchia la proporzione come da disciplinare (60% Nero d’Avola e 40% Frappato, che può arrivare al 50%). L’origine del Frappato è riconducibile al vittoriese dove è coltivato dal 1600, tuttavia alcuni ampelograf gli conferiscono una derivazione spagnola. Nella zona calatina è conosciuto come Nerocapitano. È presente quasi esclusivamente a Vittoria e nella valle dell’Acate, ma si trova anche in altre zone, tra cui Noto. Dopo un periodo di trascuratezza è in forte rivalutazione. Il grappolo è medio-grande, l’acino rotondo e dalla buccia spessa e pruinosa, blu violacea; è una varietà piuttosto tardiva. Il Frappato produce un vino di un colore mediamente più chiaro rispetto al Nero d’Avola. Da sempre ha rappresentato l’archetipo del vino da pasto, dalla fnezza peculiare. Il nome riporta alle foglie particolarmente dentellate. Matura intorno alla fne di settembre. L’etimologia del Nero d’Avola basterebbe già a rendere avvincente la sua storia: compare in alcuni scritti del 1500 ed è registrato nel Catalogo Nazionale delle Varietà della Vite come Calabrese. Si tratta di una di quelle situazioni linguistiche complicate dalle incursioni dialettali, ovvero l’italianizzazione del termine calavrisi, poi calabrese: calavrisi, uva di Avola oppure “calata, venuta da Aurisi” da Avola (Aurisi è il vecchio termine per defnire Avola); nel 1800 viene associato al paese costiero in provincia di Siracusa. È senza dubbio il vitigno più rappresentativo della Sicilia, ha la capacità di concentrare grandi quantità di zucchero. Riscuoteva molto successo come vino da taglio o da bere giovane: fno a qualche decennio fa, dal porto di Marzamemi partivano enormi cisterne di vino verso Toscana, Piemonte e Francia (dove era noto come vin medecine). Il grappolo è medio-grande, alato, non molto compatto, l’acino ha una forma leggermente allungata e una buccia di medio spessore di colore bluastro con poca pruina. Il succo diventa subito violaceo, molto zuccherino e conserva buona acidità. A Vittoria matura nella seconda decade di settembre. Durante le visite è emerso un aspetto peculiare: l’età media del vigneto vittoriese è piuttosto bassa, poche vigne superano i cinquant’anni e, inoltre, un numero esiguo di produttori si preoccupa di praticare gli innesti in campo e la selezione massale.

Senza dubbio l’areale di Vittoria è uno dei più interessanti terroir del bacino del Mediterraneo. I motivi sono: la terra, rossa e bruna, il calcare bianco, la scarsa profondità dei suoli, un clima mitigato dal mare, sempre ventilato, con estati certamente caldissime ma con una discreta riserva d’acqua legata proprio al principale componente del sottosuolo. Ricordo chiaramente l’umidità di un frammento di calcare bianco scintillante prelevato durante lo scasso di un vigneto, nella famosa contrada Bastonaca, in compagnia di Guglielmo Manenti, tra i più promettenti produttori di Vittoria. Il segreto risiede proprio nella capacità di cedere l’acqua da parte della pietra, in una zona dominata da un sottile e soffice strato di terra rossa. Per confrontare il temperamento del Nero d’Avola e del Frappato nelle zone adiacenti, ho visitato alcuni produttori tra San Michele di Ganzaria, Caltagirone e il Val di Noto. Prima di defnire il plateau ibleo, compresa la stessa Vittoria, guardiamo da vicino i Monti Iblei, la cui energia è la vera forza di questa terra. Stiamo parlando del più importante altopiano della Sicilia sud orientale, compreso tra le province di Ragusa, Siracusa e Catania. Il monte Lauro, la cima più alta con quasi mille metri di altezza, segna il confne tra il siracusano e il ragusano. Si tratta di un massiccio calcareo-marnoso bianco conchiglifero del Miocene (tra 23 e 5 milioni di anni fa), l’altopiano è stato inciso da numerosi fumi e torrenti che hanno generato le cosiddette “cave” degli Iblei. È evidente il profondo fenomeno carsico, specialmente nella parte orientale dell’area, data la presenza di stalattiti e stalagmiti. La zona iblea, come quella maltese e quella pugliese, fanno parte della placca africana, che proprio qui ha il suo punto di scontro con la placca euroasiatica. Le “lastre” calcaree affioranti, tra l’altro, sono un leitmotiv comune a tutte queste zone, compresa quella istriana. La micro-placca denominata siculo-iblea, intrappolata tra quella africana e quella euroasiatica, sarebbe la responsabile dei forti terremoti verifcatisi nella parte orientale dell’isola. A est, nelle vicinanze di Siracusa, nei fondali del mar Ionio, il plateau degli Iblei continua fno alla scarpata Ibleo-Maltese che delimita la piana abissale più profonda del Mediterraneo. In origine gli Iblei erano un complesso vulcanico sottomarino la cui attività risale a milioni di anni fa e si è ormai estinta, più antica di quella del monte Etna che dista solo una cinquantina di chilometri. Le testimonianze dell’attività eruttiva si trovano oggi nella roccia magmatica di colore scuro depositata soprattutto nella parte settentrionale e orientale della catena. Nelle zone costiere si trova una roccia sedimentaria più recente, un’arenaria calcarea che viene denominata pietra bianca di Siracusa, detta nel sud-est della Sicilia petra giuggiulena, ovvero pietra-sesamo, perché è facile che si sgretoli in granuli di dimensioni simili ai semi della pianta omonima. Altrove, in Sicilia, la stessa roccia è chiamata generalmente “tufo” e spostandosi tra gli Iblei assume la denominazione del luogo in cui viene estratta, come la pietra di Modica e la pietra di Comiso. A Ragusa, e in generale nell’altopiano ragusano, è nota la “pietra pece”, di colore scuro, quasi nero, dovuto al calcare bituminoso. Vittoria è, dopo Ragusa, il comune più popolato della provincia; è anche la città più giovane, presenta una moderna struttura a scacchiera, con strade larghe e rettilinee. Il suo territorio si sviluppa sull’omonima piana, affacciata sul Canale di Sicilia. La città fu fondata su una pianura molto fertile nota come “Boscopiano”. L’attività principale è, da secoli, l’agricoltura, in particolare quella in serra che, nel corso degli anni, ha caratterizzato totalmente il paesaggio: la lunga distesa di capannoni lungo la costa è un’immagine “forte”, rappresentativa.

D’altronde a Vittoria, città delle primizie, è stato edifcato il più grande mercato ortofrutticolo d’Italia. Nella parte più interna, le campagne sono disseminate di bagli e palmenti e testimoniano la grande diffusione della vite, come illustrato nella trattazione storica. Il territorio più importante è la media collina nella quale i vigneti sono situati a un’altitudine compresa tra 200 e 350 metri. Si tratta dell’areale Classico del Cerasuolo di Vittoria, a forte dominante calcarea: oltre la metà dei suoli è caratterizzata dalla famosa terra rossa, formatasi in prevalenza su substrato calcarenitico e ricca di ferro. Un altro settore, che include Vittoria, è compreso tra l’Ippari e il Dirillo e poggia su terreni fuviali, ciottolosi. Le condizioni medie del comprensorio sono quelle tipiche del clima mediterraneo caldo-arido. Rarissima la nebbia, così come il ristagno di umidità, forti le escursioni termiche tra giorno e notte. Le contrade storiche più importanti per la produzione sono Pettineo, Fossa del Lupo, Bastonaca, Bombolieri, Santa Teresa.

 

  


29 settembre 2023

La sonda Voyager 1 compie 45 anni, missione da record.





E’ stato il primo e unico veicolo  spaziale a guardare da vicino Urano e Nettuno e poi ha attraversato i confini del Sistema Solare, tuffandosi nello spazio interstellare, da dove continua a inviare dati sulla Terra: la Voyager 1 è una missione da record, che con i suoi 45 anni di attività detiene un primato unico nella storia dell’era spaziale. 

Lanciata il 20 agosto 1977, è il più longevo dei veicoli spaziali e con la sua gemella Voyager 2, lanciata 15 giorni più tardi, è la protagonista di una missione davvero unica: entrambe “continuano a fare scoperte sorprendenti”, ha detto la responsabile della missione Suzanne Dodd, del Jet Propulsion Laboratory (Jpl) della Nasa.

Nella sua corsa attraverso il Sistema Solare la Voyager 1 ha toccato traguardi storici: nel 1979 il saluto a Giove e alle sue lune; nel 1981 si è tuffata in un anello di Saturno allora sconosciuto e ha fotografato la luna Febo; nel 1986 ha 'annusato' l'atmosfera di Urano, 'ascoltato' il campo magnetico del pianeta e scoperto alcune delle sue lune.

Ancora oggi i suoi dati continuano a stupire. E' del 2016, per esempio, la scoperta di altre due lune di Urano, oltre alle 27 già note, possibile grazie ai dati che la sonda aveva catturato nel 1986, durante il passaggio ravvicinato al pianeta.

Una corsa nella quale le due sonde gemelle di sono rincorse e sfidate continuamente, con la Voyager 1 che ha raggiunto Giove e Saturno prima della sua compagna, mentre la Voyager 2 è stata la prima ad avvicinarsi a Urano e  Nettuno, inviando a Terra le immagini più dettagliate di quei pianeti lontani, Nel 2013 la Voyager 1 è stata anche la prima a inoltrarsi nello spazio interstellare; la sua gemella l’ha seguita sei anni dopo, il 5 novembre 2018. Nel 2019 ii dati della Voyager 2 hanno permesso di scoprire una zona fino ad allora sconosciuta: quella in cui il vento di particelle proveniente dal Sole incontra il vento interstellare. 

Se dalle distanze straordinarie che hanno raggiunto con una tecnologia nata negli anni '70 le sonde Voyager non hanno mai smesso di inviare dati alla Terra, il merito è del sistema di comunicazione realizzato dalla Nasa per le missioni interplanetarie, il Deep Space Network. Se non ci saranno imprevisti, dovrebbero viaggiare così anche le prime informazioni sulla composizione delle polveri interstellari. A spingerle sempre più lontano dalla Terra è un generatore al plutonio.

Le due sonde sono anche messaggeri molto speciali, che stanno portando nello spazio interstellare un biglietto da visita della Terra e dei suoi abitanti: un disco placcato in oro progettato per durare oltre un miliardo di anni, che contiene le immagini e suoni della vita sul nostro pianeta, diagrammi di leggi scientifiche fondamentali e saluti in molte lingue.

  “Non sappiamo per quanto tempo ancora la missione proseguirà, ma – ha osservato Dodd - siamo sicuri che continueranno a regalarci ancora molte sorprese scientifiche”.

 

Seconda immagine

Il disco placcato in oro, messaggero della Terra nello spazio interstellare (fonte: NASA, JPL)

 

 


25 settembre 2023

CLIMATIZZATORE

 



Cosa influenza la bolletta elettrica?

Rispondere a questa domanda con un riferimento generico ai “consumi del climatizzatore” sarebbe davvero riduttivo, in quanto a loro volta i consumi sono determinati da un complesso equilibrio di variabili tecnologiche, installative e anche climatiche.

Cosa influenza, quindi, la bolletta?

Sappiamo tutti che i migliori elettrodomestici sono in classe A e maggiori, come A++ proprio perché consumano meno rispetto ai modelli in classi inferiori di efficienza.

Nella tecnologia rientrano, a seconda del modello di climatizzatore scelto, anche tutte le sue funzionalità. Normalmente, sui dispositivi che si trovano in commercio, ci sono funzioni di deumidificazione, funzioni “Eco” oppure programmi notturni che prevedono lo spegnimento automatico dopo un tot di ore. Tutte queste funzionalità permettono di risparmiare elettricità.

Dimensionamento e potenza

Il dimensionamento è una procedura che va effettuata da un tecnico ed è finalizzata a definire la potenza necessaria a raffrescare efficacemente le stanze. È una valutazione che dipende dai volumi delle stanze e da altri parametri che gli installatori conoscono bene, tra i quali la disposizione interna delle stanze, la presenza o meno di vani scala aperti, le condizioni di isolamento dell’edificio e l’esposizione delle pareti al sole.

Il dimensionamento deve essere corretto ai fini dell’ottimizzazione dei consumi. Questo perché, se venisse installato un condizionatore sottodimensionato, sarebbe costretto a lavorare continuamente al massimo per ottenere un risultato confortevole. Un climatizzatore sovradimensionato determinerebbe invece uno spreco di risorse.

Quindi, dimensionamento e potenza ben calibrati sono alleati del risparmio.

Tempi di utilizzo

Il consumo ovviamente è proporzionale al numero di ore in cui la tecnologia è in funzione. Se a casa ci siete poco e rientrate solo la sera, il climatizzatore dovrà funzionare solo per alcune ore. Se invece la famiglia necessità di un comfort costante, allora deve funzionare per molte ore. 

Spegnere e riaccendere il condizionatore consuma più energia?

Si parla tanto di risparmio energetico, ma sappiamo davvero come applicarlo in casa? Scoprite perché non è consigliabile spegnere e riaccendere l'aria condizionata.

Ogni volta che accendiamo il condizionatore, il suo funzionamento riparte con una certa accelerazione e notevole consumo di energia elettrica. È proprio in questo picco che si verifica il maggior consumo. Insomma, se lo accendiamo una volta, questo si verificherà solo questa volta, mentre se lo facciamo ripetutamente, il consumo si ripete.

Raggiunta la temperatura impostata è meglio mantenere acceso il condizionatore invece di spegnerlo per riaccenderlo poco dopo.

 


13 settembre 2023

LE UNITA’ DI MISURA ‘ARBITRARIE’.

 



Aforisma:Colui che obbedisce a regole rigide e arbitrarie, ma a lui perfettamente note, è molto più libero di colui che si crede libero perché ignora le regole cui obbedisce’.

Quando puoi misurare ciò di cui stai parlando, ed esprimerlo in numeri, tu conosci qualcosa su di esso; ma quando non puoi misurarlo, quando non puoi esprimerlo in numeri, la tua conoscenza è scarsa e insoddisfacente. Può essere l'inizio della conoscenza, ma nei tuoi pensieri, sei avanzato poco sulla via della scienza.

La misurazione è quel procedimento che permette di ottenere la descrizione quantitativa di una grandezza fisica cioè il valore numerico del rapporto tra la grandezza incognita e quella omogenea scelta come unità di misura arbitraria. La scelta della grandezza omogenea avviene tramite la definizione del campione; il valore numerico che risulta dal procedimento di misurazione tra il campione e il misurando viene definito misura.

E’ stato creato il Sistema Internazionale di unità di misura, più ufficialmente, in lingua francese, Système International d'Unités e abbreviato in SI che è il più diffuso tra i sistemi di unità di misura. Le unità e gli altri elementi del SI vengono stabilite dalla Conférence Générale des Poids et Mesures, CGPM.

Oggi, il SI è basato su sette unità fondamentali di misura (lunghezza, tempo, massa, intensità di corrente elettrica, temperatura termodinamica, intensità luminosa, quantità di sostanza) dalle quali vengono ricavate tutte le altre unità di misura che sono dette unità derivate.

Il SI, inoltre, definisce una sequenza di prefissi da premettere alle unità di misura per identificare i loro multipli e sottomultipli.

Anche se del tutto necessarie per avere una base di partenza per qualsivoglia calcolo, occorre tenere ben presente che le unità di misura sono arbitrarie. Di conseguenza le distanze, indicate in anni luce, degli oggetti del cosmo: galassie, buchi neri, stelle ecc. non sono reali, per nulla attendibili.

Stella polare

Stella polare è la stella più luminosa della costellazione di Ursa Minor, che si trova circa 434 anni luce dalla Terra. Distanza non attendibile perché basata su unità di misura del tutto arbitrarie. Non è importante conoscerne la distanza reale o altre attribuzioni, all’infuori di una: È conosciuta perché rimane quasi immobile mentre tutto il cielo settentrionale sembra muoversi intorno a lei.

Questo perché è localizzata quasi al polo celeste nord, il punto intorno al quale tutto il cielo settentrionale apparentemente circola. Quindi segna il modo in cui si trova il Nord. Il polo segna il vero nord, che rende la stella polare importante nella navigazione, in quanto l’elevazione della stella sopra l’orizzonte significa latitudine dell’osservatore.

Per gli osservatori al Polo Nord, la stella si trova direttamente sopra la testa. Per gli osservatori all’equatore, stella polare siede all’orizzonte.

 

 

 

 

 


6 settembre 2023

Forse non sai che in Sicilia c'è la tomba di un gigante: dov'è questo luogo (leggendario)


A seguire l’articolo di Livio Grasso Archeologo

<< Sulla strada per Sagana è ben visibile un sarcofago di grandissime dimensioni. Secondo racconti popolari, era stato "foggiato" per l'eterno riposo di un'enorme creatura.

Un tempo, secondo antiche leggende, la Sicilia fu popolata da enormi e temibili creature. Si tratta dei cosiddetti giganti, protagonisti di innumerevoli racconti mitici. Alcune fonti rilasciano svariate notizie sulla possibile esistenza di questi uomini mastodontici.

A tal riguardo, si vocifera che nel 1527 furono rinvenute delle enormi ossa in diverse grotte del Monte Grifone; la località rientra nel versante territoriale di Palermo.

Tale ritrovamento indusse gli studiosi a compiere delle ricerche sempre più approfondite e dettagliate in relazione alla civiltà dei giganti.

Basti pensare allo storico Antonio Mongitore che, nell’opera intitolata "Della Sicilia ricercata nelle cose più memorabili", riportava molteplici informazioni sulla presenza delle ossa dei giganti in vari luoghi siciliani. Oltre a ciò egli dichiarava di aver visitato personalmente la spelonca di Maredolce.

Qui, a suo dire, un certo Paolo Lentini individuò il cadavere di un gigante alto 18 cubiti (circa otto metri). A partire da allora l’area fu assiduamente frequentata da numerosi visitatori, attratti dalla sensazionale scoperta. Ciò, al contempo, incentivò a ritenere che i giganti fossero i primi abitatori dell’isola.

Dello stesso avviso erano persino il filosofo Empedocle, vissuto nel V secolo a.C., e il noto Giovanni Boccaccio.

Entrambi, infatti, affermavano che i giganti abitavano negli antri costieri siciliani. Nei primi decenni dell’Ottocento, la questione fu sottoposta a delle analisi minuziose e accurate; accertare la veridicità dei fatti raccontati rientrò tra gli obiettivi prioritari della ricerca.

Ben presto, precisamente nel 1831, le indagini confermarono che i resti ossei appartenevano ad animali di epoca preistorica: cervi, ippopotami ed elefanti.

Dello stesso avviso erano persino il filosofo Empedocle, vissuto nel V secolo a.C., e il noto Giovanni Boccaccio.

Entrambi, infatti, affermavano che i giganti abitavano negli antri costieri siciliani. Nei primi decenni dell’Ottocento, la questione fu sottoposta a delle analisi minuziose e accurate; accertare la veridicità dei fatti raccontati rientrò tra gli obiettivi prioritari della ricerca.

Ben presto, precisamente nel 1831, le indagini confermarono che i resti ossei appartenevano ad animali di epoca preistorica: cervi, ippopotami ed elefanti.

Da quel che si vocifera, l’arcano fu risolto dal brillante e talentuoso abate Domenico Scinà. Nel 1867, invece, Gaetano Giorgio Gemmellaro risalì all’identificazione delle suddette specie effettuando uno studio anatomico e morfologico delle ossa. Allo stato attuale, esse sono conservate presso il Museo Gemmellaro della città palermitana. I fossili rinvenuti risalgono a circa 200.000 anni addietro.

A quel periodo, come attestato dalla scienza, la terra siciliana pullulava di elefanti, ippopotami, cervi, daini, lupi, cinghiali e orsi. Ad ogni modo, il mistero sull’esistenza dei giganti in Sicilia non appare del tutto chiarito.

Nella frazione di Sagana, sita nel territorio di Monreale, è ben visibile un sarcofago di grandissime dimensioni.

I ricercatori, non appena localizzato, hanno indagato sulle origini storiche del complesso tombale. Prestando fede alle testimonianze popolari, esso era stato "foggiato" per contenere le spoglie di un vero e proprio gigante.

Di converso, altri sostengono che fu realizzata per seppellire un guerriero saraceno di nobili origini. Purtroppo, la carenza di indizi sul reperto non consente di giungere ad alcuna conclusione esaustiva.

Ulteriori teorie, in aggiunta, ipotizzano che il sepolcro custodiva la salma di un patrizio romano. In ogni caso, ad oggi, i più credono che sia un cenotafio. Ovvero un monumento sepolcrale che, nell’antichità, veniva eretto per commemorare una persona od un gruppo di persone sepolte altrove.

In definitiva, il monumento funebre di Sagana è un enigma che pone una serie di interrogativi difficilmente risolvibili. Pertanto, la formulazione di un giudizio scientifico e risolutivo non è al momento proponibile. <<

Osservando da vicino quel sarcofago, situato proprio a pochi metri dalla strada, ho notato che è stato sicuramente violato. Alcuni dei blocchi di tufo, con cui sembra costituito, sono stati rimossi e poi rimessi a posto chiudendo le fessure con del materiale di colore leggermente diverso da quello del tufo. La manomissione è chiaramente evidente. Nessuno sa nulla di tale violazione o cosa abbia scoperto.

I segni dell’erosione farebbero risalire la sua costruzione ad un paio di millenni fa, al tempo degli antichi romani.

Le abitazioni della frazione Sagana distano parecchio ed ancor più Monreale, mentre l’area dove sorge il sarcofago è oggi praticamente disabitata, il sarcofago fu quindi edificato in mezzo al nulla. 



16 marzo 2023

TETTONICA A PLACCHE E MARI.



Oggi è stato dimostrato che i continenti si muovono l'uno rispetto all'altro.

La litosfera (cioè la parte rocciosa o liquida e più esterna del nostro pianeta) è divisa in grandi blocchi, le placche continentali e i mari, che galleggiano su uno strato fuso (il mantello), si muovono.

Che le placche siano mosse dal grandissimo calore presente all'interno della Terra, oppure per l'attrazione solare, lunare e per la rotazione terrestre, che avrebbero un ruolo nel movimento delle placche, le placche e gli oceani comunque si muovono.

Un centimetro l’anno, a salire o a scendere, movimento non percettibile, nel corso di milioni di anni diventa di milioni di centimetri e quello che era il fondo del mare lo ritroviamo come catene di montagne e terre emerse, mentre le catene montuose diventano fondale dei mari.

E’ del tutto naturale che flora e fauna siano state costrette nel tempo a modificarsi per adattarsi agli sconvolgimenti lentissimi ma fatali della litosfera. In realtà non abbiamo idea di quante forme di vita animale e vegetale abbia ospitato la Terra. Flora e fauna non si sono mai completamente estinte, forse grazie agli indistruttibili Tardigradi, neppure a causa delle glaciazioni.

Non si sa ancora con precisione quante glaciazioni ci siano state sulla Terra, e quando. I primi studi sistematici furono fatti all’inizio del secolo dai geologi Penck e Brueckner nella regione alpina. Essi conclusero che nel Pleistocene (il periodo più studiato: da due milioni a circa 10 mila anni fa) ci furono in quella zona quattro periodi di espansione e ritiro dei ghiacci.

Le glaciazioni furono distinte con i nomi di fiumi: Günz, Mindel, Riss e Würm, e i periodi interglaciali come Günz-Mindel, Mindel-Riss e Riss-Würm. Alcuni studiosi ipotizzano una quinta glaciazione (Donau), prima di quella di Günz. Altri affermano che negli ultimi 500 mila anni si sono avute cinque o sei glaciazioni, a cicli di circa 100 mila anni. L’ultima che ha interessato le Alpi si verificò tra i 18 e i 20 mila anni fa. Nel Pleistocene le glaciazioni interessarono anche Europa centrale, regione scandinava, Asia, America del nord, Africa e Australia. Altre glaciazioni si sarebbero avute prima del periodo Cambriano (circa 600 milioni di anni fa) e nel Carbonifero (circa 300 milioni di anni fa).

 

 

 

 

 

  


15 febbraio 2023

Gelatina, colla di pesce e addensanti.

 





Aspic, panna cotta, caramelle gommose e glasse sono solo alcune delle preparazioni che hanno un ingrediente in comune: la gelatina.
La gelatina o, più in generale, gli addensanti sono agenti gelificanti, ovvero che portano un composto liquido allo stato solido.
Gli addensanti sono molto usati in pasticceria e differiscono per la composizione: un grammo di gelatina in un liquido può dare una consistenza diversa da un grammo di un altro addensante presente nello stesso liquido.
I vari tipi di gelatina
Uno degli addensanti più conosciuti è la gelatina animale, ma ne esistono anche di vegetali come la gomma gellan, l’agar agar, la pectina o gli amidi. Andiamo a vedere nello specifico ogni tipo di agente addensante.
Gelatina animale
La gelatina animale, famosa con il nome “colla di pesce” perché era ottenuta dalla vescica natatoria di alcuni pesci (in particolare lo storione), oggi è ottenuta soprattutto dalla cotenna di maiale e dalle ossa di bovini e suini. Se tra gli ingredienti della vostra merendina preferita c’è l’E441, vuol dire che è presente la gelatina animale in quel prodotto.
Per utilizzare la gelatina animale è necessario idratarla in acqua fredda (tra i 10° e i 15°C), poi riscaldarla in un po’ di liquido (in base a quello previsto dalla ricetta: panna, latte, acqua, vino, ecc.) e poi farla gelificare al freddo (circa 10°C).
Per utilizzare invece i fogli sottili e trasparenti di colla di pesce, vanno prima immersi per alcuni minuti in acqua e quindi strizzati. Questo processo è necessario per far idratare il collagene, presente circa al 90% in peso nella gelatina.
Il collagene è una proteina presente nelle ossa, cartilagini, tendini e tessuti connettivi di tutti gli animali. La Man mano che cuociamo un brodo di carne (con ossa e parti ricche di tessuto connettivo) la quantità di collagene si concentra nel liquido e, lasciandolo raffreddare, si ottiene un composto gelatinoso capace di intrappolare aromi e liquidi.
I composti preparati con la gelatina animale possono essere congelati senza che il prodotto ne risenta.
Per un litro di liquido si usano circa 20 g di gelatina.
Pectina
La pectina (sigla E440), è un prodotto naturalmente presente in alcuni frutti e piante e si utilizza per confetture, marmellate, yogurt, succhi e gelatine.
Il potere gelificante di alcuni frutti era già noto nella prima metà del 1800, quando venivano aggiunti alcuni frutti nella preparazione di confetture e marmellate di frutta con un basso potere gelificante.
La buccia degli agrumi (limone, lime, arancia, bergamotto, mandarino) e le mele sono i frutti con la maggior presenza di pectina.
Agar Agar*
L’agar agar è un agente gelificante vegetale derivato dalle alghe. È presente nei prodotti confezionati con la sigla E406. L’agar agar non si scioglie in acqua ma per poter utilizzare il suo potere gelificante si deve riscaldare a circa 80°-90°C e poi inizia ad addensare i composti a 30°-40°C .
Al contrario della gelatina animale, non resiste al congelamento ma il composto gelificato può essere sciolto nuovamente mediante cottura e poi fatto risolidificare. polvere.
Per 1 litro di liquido serviranno circa 4/5 g di agar agar in polvere. È consigliabile utilizzare l’agar agar entro sei mesi dall’acquisto perché, col passare del tempo, diminuisce il potere gelificante.
Gomma gellan*
La gomma gellan, poco nota al grande pubblico, è l’agente gelificante che permette di ottenere gelatine più forti, infatti è usata per ottere i fogli sottili di gelatina utilizzati per decorare i piatti e i dessert e per tutti quei dessert che hanno una parte gelatinosa interna ma che prevedono la cottura in forno, poiché è resistente al calore. È presente negli alimenti con la sigla E418 (si trova spesso nel latte di soia) e si ottiene dal batterio Sphingomonas elodea. La gomma gellan è un ingrediente del prodotto, SHHH QUESTO NON E’ LATTE, della ditta alpro, bevanda vegetale gusto latte a base di avena, che assumo a colazione essendo intollerante al lattosio.
Questo batterio è stato scoperto e isolato dalla ex Divisione Kelco di Merck & Company, Inc. nel 1978 dal tessuto vegetale del giglio presente in un laghetto naturale in Pennsylvania.
Per utilizzarla è necessario idratarla in acqua fredda, poi portarla a 90°C e lasciarla raffreddare: a 60°C inizia il processo di gelificazione.
Xantano*
La gomma di xantano, o semplicemente xantano, è molto usato nella cucina senza glutine per far addensare gli impasti. Sulle etichette dei prodotti alimentari viene indicato come E415.
Lo xantano è una gomma naturale che rende l’impasto lavorabile e morbido, cosa che spesso non accade utilizzando farine gluten free.
È molto indicato nelle preparazioni di paste friabili (frolle, brisée,paste secche) e di lievitati poiché ne aumenta la sofficità.
Carragenina*
La carragenina è molto utilizzata nell’industria alimentare come addensante per la panna da cucina o per dolci, spesso con la sigla E407.
Si ottiene dalla bollitura di due alghe rosse presenti sulla costa rocciosa dell’Atlantico settentrionale.
Amidi*
Gli amidi come la maizena (o amido di mais), amido di riso o fecola di patate, sono molto utilizzati in pasticceria, soprattutto per addensare le creme e le salse.
Come per l’agar agar, è necessario scaldare il composto (circa 90°C) affinché l’agente gelificante compia il suo dovere.
Scala Bloom
La scala Bloom misura la forza del gel formato dall’agente addensante: maggiore è il suo valore nella scala, maggiore sarà il suo potere addensante.
Sono vegano, quale uso?
Se segui un’alimentazione che non prevede l’assunzione di derivati animali, puoi utilizzare tutti gli agenti addensanti della lista contraddistinti dall’asterisco.
Quando vai fuori a cena o nei locali non esclusivamente vegan, chiedi sempre se in dolci come panna cotta, budino, creme varie è presente la gelatina animale, facendo presenti le restrizioni alimentari.
In commercio la gelatina animale è presente nei prodotti alimentari con la sigla E441.

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