6 novembre 2023
CERASUOLO DI VITTORIA.
Cerasuolo di Vittoria D.O.C.G.
60% Nero d’Avola
40% Frappato
Dalle campagne di Dorilli, tra il mare e i monti Iblei,
conosciuti come luogo di eccellenza del food in Sicilia, nasce
il Cerasuolo di Vittoria. Il nome dell’unica DOCG di Sicilia deriva da
“cerasa”, la ciliegia in dialetto siciliano. È ottenuto dalle varietà autoctone
Nero d’Avola e Frappato. Un vino unico, riconoscibile e indimenticabile per i
suoi sapori giovanili e i profumi di ciliegia, fragola e melograno, dovuti alla
particolarità dei suoli e del clima in cui sono coltivate le uve. Un vino che
come pochi coniuga tradizione e piacevolezza del vino.
Diraspapigiatura seguita da 14 giorni di permanenza sulle
bucce, fermentazione a 23 °C.
Cerasuolo, Frappato e Nero d’Avola: l’essenza dei vini di
Vittoria
Seppur circoscritta a sole tre
aziende (quattro se aggiungiamo la recente recensione di Valle dell’Acate),
l’immagine dei vini dell’area di Vittoria esce ben delineata: nessuna presenza
di toni surmaturi, estrazioni tanniche calibrate e gradi alcolici
contenuti. Al di là delle momentanea prevalenza di una tipologia rispetto
all’altra, si riesce quindi a ricavare l’impressione di un’enologia precisa e
ben curata che preserva l’integrità del frutto e privilegia l’equilibrio,
rinunciando probabilmente, ma consapevolmente, a qualche aspetto caratteriale
meno controllabile.
Il CERASUOLO DI VITTORIA è un rosso di
forte ed antica tradizione, che gioca la sua identità sul connubio fra la forza
del Nero d’Avola e la gentilezza del Frappato, vitigno diffuso principalmente
nell’area di Denominazione, la prima ed al momento unica DOCG siciliana. LA
VINIFICAZIONE: Le uve, vendemmiate dopo la metà di settembre, vengono
vinificate in acciaio con breve macerazione a temperatura controllata. Dopo la
fermentazione malolattica in acciaio, il vino viene imbottigliato ed immesso in
commercio circa un anno dopo la vendemmia.
Fondata da coloni greci nel 734 a.C., Siracusa era
nell’VIII secolo a.C. una delle città più importanti dell’intera area
mediterranea, solo qualche anno dopo sorsero Roma e Napoli, mentre in Grecia si
istituivano le polis. Si tratta di uno dei momenti più alti della nostra civiltà.
Alla città sicula si è sempre accostata la presenza del mitico Biblino, un vino
dolce che, fno a qualche anno fa, si pensava fosse l’antenato dell’odierno
Moscato di Siracusa, mentre recenti ricerche lo mettono in relazione con
Gaglioppo e Frappato. In effetti si tratta presumibilmente di un vino dolce
rosso originario del Libano, prodotto anche in Grecia e poi, appunto, nel
siracusano. Dunque, la Sicilia sud orientale già allora aveva assunto una certa
rilevanza nel panorama vitivinicolo. Sulle coste dell’area iblea i coloni
siracusani fondarono, nel 598 a.C., Camarina, oggi sito archeologico alla foce
del fume Ippari. La complessa disputa siciliana tra Fenici e Greci è annoverata
nelle guerre greco-puniche tra il 600 e il 265 a.C., anno dell’arrivo dei
Romani sull’Isola. Secondo Michajl Rostovcev, storico russo tra i massimi
esperti di storia greca, romana e persiana, l’interesse dal punto di vista
agricolo era distribuito in base alla differente vocazione dei popoli: i
cartaginesi puntavano alla coltivazione del grano, i siracusani e i camarinesi
continuavano un’intensa attività vitivinicola e olivicola. A Roma, intorno al
500 a.C., agli albori dell’età Repubblicana, i vini greci provenienti da Lesbo,
dalla Grecia orientale e dalle coste turche erano considerati il meglio
dell’enologia dell’epoca, allo stesso modo non tardarono a farsi conoscere
quelli della Magna Grecia e, in particolare, della Sicilia sud orientale. I
reperti archeologici di epoche successive documentano la grande attività di
produzione del vino nelle aree aretusa e iblea, proprio in quelle zone furono
ritrovate delle monete sulle quali erano impresse immagini di anfore per il
trasporto del vino. A largo di Camarina e di Scoglitti (lo scalo marittimo di
Vittoria), furono ritrovate delle anfore vinarie che testimoniano la produzione
e il commercio del liquido verso Roma, la Gallia e la Spagna. A Pompei, sono
stati reperiti alcuni contenitori di terracotta risalenti al II secolo a.C.,
sui quali era impressa la scritta Mesopotanium, “la terra compresa tra i due
fumi”, l’Ippari e il Dirillo che segnano i confni dell’odierna zona del
Cerasuolo di Vittoria. Non solo il vino ibleo, ma anche quello proveniente da
tutta la provincia orientale, da Messina a Catania fno al Val di Noto (è
maschile perché “Vallo”), era menzionato dai grandi storiograf e letterati dell’epoca,
da Catone a Plinio, a Strabone, di quest’ultimo le entusiastiche testimonianze
sul Mamertino e le motivazioni della bontà di tutti i vini della zona
orientale: «Il fatto che tale regione è ricca di viti si potrebbe congetturare
che dipenda dall’agro di Catania che, ricoperto di ceneri (vulcaniche), produce
buon vino in abbondanza». Verso la fne dell’Impero Romano, in uno dei periodi
più turbolenti della sua storia, durante il dominio vandalo, ostrogoto e
bizantino, l’agricoltura subì un decadimento sostanziale, in particolare la
viticoltura non vide progressi a differenza di quel che si verifcava nel resto
d’Europa, dove il vino costituiva una delle migliori merci di scambio. Intorno
all’800 d.C. arrivarono le conquiste arabe, uno dei momenti più importanti per
la storia dell’Isola. Le innovazioni nel settore agricolo, in primis l’uso
dell’acqua, sono ampiamente conosciute anche se la viticoltura non fu l’ambito
favorito. Michele Amari, storico palermitano e Ministro della pubblica
istruzione del Regno dal 1862 al 1864, studioso della Sicilia musulmana,
scrisse: «I vigneti scemarono sotto la dominazione musulmana; e sì lentamente
si rifornirono in due secoli, che la Sicilia faceva venir vini da Napoli verso
la fne del XII». Nonostante la lungimirante politica agricola di Federico II
(basti pensare alla distribuzione di terre incolte ai contadini per la
coltivazione del grano), la situazione non migliorò, complicata dalla
centralità del suo potere. Dal 1200 la viticoltura siciliana rimane in una posizione
subalterna per almeno tre secoli, in particolare nella parte sud orientale, a
causa della sua funzione di fornitrice di grano, la cui redditività era
piuttosto bassa. La dominazione spagnola, col suo rapace fscalismo, fu incapace
di risolvere il problema delle fnanze pubbliche e di far avanzare l’Isola da
uno stato di forte arretratezza. Mentre in Europa si gettavano le basi delle
grandi industrie vinicole francesi e spagnole, la Sicilia restava in una
posizione di svantaggio. Le testimonianze del tempo sui vini siciliani sono
scarse, ma se ne sancisce la bontà. Ne scrive Andrea Bacci nel suo De naturali
vinorum historia (1596) riferendosi alla qualità dei vini dell’Etna, del
siracusano e di Noto. Siamo nel punto nevralgico del nostro percorso storico.
Nel 1606, la nobildonna Vittoria Colonna Henriquez, contessa di Modica, fondò
Vittoria e immediatamente incentivò la produzione del vino concedendo privilegi
a coloro i quali avessero piantato vigne: in quell’anno regalò, ai primi
settantacinque coloni, un ettaro di terreno ciascuno a condizione che ne
coltivassero un altro a vigneto, favorendo così un’enorme espansione nelle
varie contrade del territorio. Per tutto il Seicento il vigneto vittoriese
crebbe a dismisura. Il vino veniva esportato prima nelle altre città della
contea di Modica e poi, attraverso il porto di Scoglitti e grazie alle navi
trapanesi e mazaresi, anche a Malta e Marsiglia. La qualità dei vini del sud
est è ampiamente trattata da Paolo Balsamo nel suoi appunti di viaggio
attraverso la Contea di Modica (1808). L’abate asserisce che dalla campagna di
Vittoria, ricca di vigneti, si produce un vino che considera il migliore tra
quelli da pasto di tutta la Sicilia. Inoltre ci fornisce importanti
informazioni sull’uvaggio del tempo: «Non è composto quasi di altre viti che di
grossonero, di calabrese ed incomparabilmente più da frappato». Il forentino
Domenico Sestini, trasferitosi a Catania come bibliotecario al servizio del
principe di Biscari, fornì un’importante testimonianza sulla vitivinicoltura
del ragusano nella lezione che tenne nel 1812 all’Accademia dei Georgofli sui
vini di Vittoria, elogiandone la qualità e descrivendo i vitigni, il sistema di
impianto e di coltivazione, la fertilità dei terreni, le modalità di vendemmia
e vinifcazione. Dunque, da più parti, i vini di Vittoria e di Avola erano
considerati tra i migliori, insieme ai Marsala. Tra l’altro, nella seconda metà
dell’Ottocento si verifcò un ulteriore sviluppo economico e la città di
Vittoria divenne una delle più foride e produttive della Sicilia. In questo
periodo ci fu un massiccio processo di riconversione di migliaia di ettari,
prima coltivati a grano, trasformati a frutteto e vigneto. A tale
trasformazione contribuì la crescita della domanda di vino e il relativo
aumento dei prezzi, complice il progresso tecnologico che rese più facile e
redditizia la coltivazione. Il porto di Scoglitti fu potenziato per fare fronte
alle richieste dei vini; nel 1860 l’esportazione dall’agro di Vittoria toccò i
300mila ettolitri (oggi ne vengono prodotti circa 15mila), in particolare verso
la Francia che, nel frattempo, aveva subito i terribili danni della fllossera.
La domanda aveva stimolato la creazione di nuovi impianti, al punto che vennero
sradicati anche oliveti secolari. La fllossera non tardò ad arrivare: comparve
in SSicilia nel 1880 in provincia di Caltanissetta, due anni dopo in provincia
di Messina. Nel 1898 apparve anche a Salemi e Marsala, causando un forte
periodo di crisi. A Catania, fu fondata, nel 1881, una scuola di viticoltura ed
enologia, cui fecero seguito le Regie Cantine e i Regi Vivai di Viti americane.
Un’utilissima attività di ricerca e sperimentazione fu svolta anche dalla Regia
Cantina Sperimentale di Noto che sorse nel 1889. La Cantina gestiva gli stessi
vivai di Noto, di Siracusa e Vittoria e si occupò di ricostruire i vigneti
distrutti dall’afde, coadiuvando l’attività con conferenze, corsi pratici,
distribuzione gratuita e vendita sotto costo di barbatelle innestate. Vittoria
pagò a caro prezzo la scelta monocolturale; migliaia di piccoli proprietari
caddero in rovina, totalmente privi di capitale per procedere ai reimpianti, la
ricostruzione avvenne soprattutto grazie alle grandi famiglie proprietarie
terriere. Dopo il 1891 la caduta della domanda di vini da taglio rese
antieconomico il ripristino dei vigneti danneggiati e la superfcie subì un
decremento, i vigneti francesi, austriaci, ungheresi erano stati ricostruiti, i
mercati si chiusero e le esportazioni diminuirono toccando il punto più basso
nel 1907. Da quel momento, la Sicilia strutturò la sua produzione sui vini da
taglio e mezzo taglio, togliendo spazio a zone vocate e a vitigni adatti (nelle
contrade di Vittoria il Frappato in particolare) a dare vini fni da pasto.
Ho fatto cenno alla crescente esportazione vinicola
siciliana, quintuplicata tra il 1870 e il 1882. L’eccezionale impennata — i cui
centri principali erano Messina, Siracusa, Catania e Trapani — aveva carattere
essenzialmente congiunturale. Era guidata dallo straordinario incremento della
domanda proveniente dal mercato internazionale e, in particolare, da quello
francese. La crescente dipendenza del settore dai passeggeri andamenti del
mercato estero, nonostante il ruolo non secondario di quello nazionale,
sollecitava gli osservatori più attenti ad avanzare critiche, perplessità e
denunce sul tema della qualità del prodotto. Le preoccupazioni erano
manifestate dallo stesso Ministero dell’Agricoltura circa la composizione della
produzione vinicola, formata in gran parte da vini da taglio diretti
specialmente in Francia. Nella provincia di Siracusa tre erano i principali
vini da taglio prodotti: il Siracusa considerato uno dei migliori, di grande
corpo, profumato, vellutato, il Pachino, sotto il quale nome andavano tutti i
vini prodotti nel territorio di Noto, Avola e Pachino, lo Scoglitti prodotto
nella piana di Vittoria, tra i comuni di Chiaramonte, Comiso e Scoglitti. Si
prediligevano le zone più calde, vicine al mare. I vini da pasto, nonostante
non fossero determinanti nell’economia isolana, mostravano qualità che ancora
oggi li rendono famosi nel mondo. Basti pensare all’Etna, al Faro e, appunto,
al Cerasuolo di Vittoria. Negli anni cinquanta i vini forti erano ancora
destinati a rimpolpare quelli prodotti nel Nord Italia e in Francia. I
produttori si mossero verso il potenziamento della produzione che sembrava
essere l’unica possibilità di mercato. Questa scelta condizionò la ripresa del
settore vitivinicolo, travagliato da problemi la cui portata si era fatta negli
anni del Fascismo e della Guerra, sempre più grave. In ogni caso, per
incremento di impianti, Vittoria si collocava tra le prime zone, insieme alla
piana di Catania, a Milazzo, e all’Etna. Per reazione, negli anni settanta, si
è arrivati a pensare che la salvezza fosse rappresentata dalle Cantine Sociali,
pulite, raffreddate, enologicamente a norma, rispetto ai Bagli poco attrezzati,
legati a una fattura dozzinale di vini da taglio. Si era posta la necessità di
orientare la produzione ma anche i consumi. L’export di sfuso è passato da
quasi due milioni di ettolitri del 1999 a poco più di 150 mila del 2009, con
una perdita del 90%. La Francia (dove lo sfuso è ancora oggi usato per
correggere la gradazione alcolica e il colore, in particolare nel bordolese),
che era il mercato principale fno agli anni novanta, oggi compra vino spagnolo,
più economico di quello italiano. E anche se nel frattempo è più che
raddoppiato l’export siciliano in bottiglia, la crisi è evidente. Soprattutto
nel trapanese, che con una superfcie vitata di quasi 60mila ettari è il secondo
distretto vinicolo in Europa per dimensioni, dopo quello di Bordeaux, e da solo
copre la metà della produzione siciliana. Soldati affronta la questione vini da
taglio con la sua sagacia quando, in occasione del primo viaggio di Vino al
Vino del 1968 si reca nelle province di Catania, Siracusa e Palermo. Riporta
aneddoti spassosi alla ricerca di vini che non avessero un’alcolicità – lui, da
bravo piemontese ci tiene a segnalarlo – così elevata, e comunque ci fornisce
avvincenti testimonianze di carattere socio-politico-culturale. Ecco la parte
più incalzante del suo intervento: «Lo scopo della legge sul non zuccheraggio
dei vini era ben altro, era molto semplicemente quello di aiutare i baroni
viticoltori dell’Italia meridionale in particolar modo di Puglia e Sicilia a
vendere i loro mosti, provenienti da terre bruciate dal sole e non irrigate,
ricchi di zucchero generatore di alcool. Nacque così lo scongiurato
“meridionale” come lo chiama il De Marchi, che cita prima sul romanzo “Giacomo
l’idealista” del 1897. Nacque il famoso taglio che tanta parte ha nella
decadenza dei nostri vini e soprattutto delle nostre capacità di gustare il
vino. Una vera rovina, sia per i vini settentrionali e centrali, che nel taglio
si alteravano, sia per gli stessi vini meridionali che fatalmente cominciarono
ad essere conosciuti dai consumatori del nord solo attraverso l’impiego che se
ne faceva nel taglio, mentre vinifcati sui loro posti e con uve vendemmiate non
così tardi avevano tutt’altro sapore. La tradizione meridionale infatti voleva
che le uve fossero raccolte non come accade dopo la promulgazione della legge e
cioè preoccupandosi prima di tutto del raggiunto grado di dolcezza, ma
vendemmiate prima, a tempo giusto, quando non sono ancora così cariche di
zucchero». Tra l’altro, ancora oggi, il grado Babo delle uve e dei mosti e il
grado alcolico nei vini sono ancora parametri fondamentali per stabilirne il
prezzo.
Rispetto ai precedenti approfondimenti sul Meridione
vitivinicolo, abbiamo considerato (almeno) due vitigni. Nelle altre occasioni
abbiamo cercato di rilevare la relazione tra una varietà e uno o più territori
per provare a comprenderne il temperamento. La bellezza del vino del sud est
siculo è legata a questo straordinario equilibrio delle parti, una congiunzione
astrale: Nero d’Avola e Frappato, così sovraesposto il primo tanto da divenire “simbolo”,
quanto esclusivo e rivelatorio il secondo. Il nero d’Avola trae benefcio da
questi luoghi, le condizioni pedoclimatiche gli conferiscono un’eleganza tutta
particolare. Ho spesso sentito dire: «Il nero d’Avola, qui, sta bene sul
calcare». Limitandoci al nostro luogo d’interesse, il vittoriese, i 190 ettari
delle denominazioni “Cerasuolo” e “Cerasuolo classico” vedono prevalente il
Nero d’Avola seguito di poco dal Frappato. Questa situazione rispecchia la
proporzione come da disciplinare (60% Nero d’Avola e 40% Frappato, che può
arrivare al 50%). L’origine del Frappato è riconducibile al vittoriese dove è
coltivato dal 1600, tuttavia alcuni ampelograf gli conferiscono una derivazione
spagnola. Nella zona calatina è conosciuto come Nerocapitano. È presente quasi
esclusivamente a Vittoria e nella valle dell’Acate, ma si trova anche in altre
zone, tra cui Noto. Dopo un periodo di trascuratezza è in forte rivalutazione.
Il grappolo è medio-grande, l’acino rotondo e dalla buccia spessa e pruinosa,
blu violacea; è una varietà piuttosto tardiva. Il Frappato produce un vino di
un colore mediamente più chiaro rispetto al Nero d’Avola. Da sempre ha
rappresentato l’archetipo del vino da pasto, dalla fnezza peculiare. Il nome
riporta alle foglie particolarmente dentellate. Matura intorno alla fne di
settembre. L’etimologia del Nero d’Avola basterebbe già a rendere avvincente la
sua storia: compare in alcuni scritti del 1500 ed è registrato nel Catalogo
Nazionale delle Varietà della Vite come Calabrese. Si tratta di una di quelle
situazioni linguistiche complicate dalle incursioni dialettali, ovvero
l’italianizzazione del termine calavrisi, poi calabrese: calavrisi, uva di
Avola oppure “calata, venuta da Aurisi” da Avola (Aurisi è il vecchio termine
per defnire Avola); nel 1800 viene associato al paese costiero in provincia di
Siracusa. È senza dubbio il vitigno più rappresentativo della Sicilia, ha la
capacità di concentrare grandi quantità di zucchero. Riscuoteva molto successo
come vino da taglio o da bere giovane: fno a qualche decennio fa, dal porto di
Marzamemi partivano enormi cisterne di vino verso Toscana, Piemonte e Francia
(dove era noto come vin medecine). Il grappolo è medio-grande, alato, non molto
compatto, l’acino ha una forma leggermente allungata e una buccia di medio
spessore di colore bluastro con poca pruina. Il succo diventa subito violaceo,
molto zuccherino e conserva buona acidità. A Vittoria matura nella seconda
decade di settembre. Durante le visite è emerso un aspetto peculiare: l’età
media del vigneto vittoriese è piuttosto bassa, poche vigne superano i
cinquant’anni e, inoltre, un numero esiguo di produttori si preoccupa di
praticare gli innesti in campo e la selezione massale.
Senza dubbio l’areale di Vittoria è uno dei più
interessanti terroir del bacino del Mediterraneo. I motivi sono: la terra,
rossa e bruna, il calcare bianco, la scarsa profondità dei suoli, un clima
mitigato dal mare, sempre ventilato, con estati certamente caldissime ma con
una discreta riserva d’acqua legata proprio al principale componente del
sottosuolo. Ricordo chiaramente l’umidità di un frammento di calcare bianco
scintillante prelevato durante lo scasso di un vigneto, nella famosa contrada
Bastonaca, in compagnia di Guglielmo Manenti, tra i più promettenti produttori
di Vittoria. Il segreto risiede proprio nella capacità di cedere l’acqua da
parte della pietra, in una zona dominata da un sottile e soffice strato di
terra rossa. Per confrontare il temperamento del Nero d’Avola e del Frappato
nelle zone adiacenti, ho visitato alcuni produttori tra San Michele di Ganzaria,
Caltagirone e il Val di Noto. Prima di defnire il plateau ibleo, compresa la
stessa Vittoria, guardiamo da vicino i Monti Iblei, la cui energia è la vera
forza di questa terra. Stiamo parlando del più importante altopiano della
Sicilia sud orientale, compreso tra le province di Ragusa, Siracusa e Catania.
Il monte Lauro, la cima più alta con quasi mille metri di altezza, segna il
confne tra il siracusano e il ragusano. Si tratta di un massiccio
calcareo-marnoso bianco conchiglifero del Miocene (tra 23 e 5 milioni di anni
fa), l’altopiano è stato inciso da numerosi fumi e torrenti che hanno
generato le cosiddette “cave” degli Iblei. È evidente il profondo fenomeno
carsico, specialmente nella parte orientale dell’area, data la presenza di
stalattiti e stalagmiti. La zona iblea, come quella maltese e quella pugliese,
fanno parte della placca africana, che proprio qui ha il suo punto di scontro
con la placca euroasiatica. Le “lastre” calcaree affioranti, tra l’altro, sono
un leitmotiv comune a tutte queste zone, compresa quella istriana. La
micro-placca denominata siculo-iblea, intrappolata tra quella africana e quella
euroasiatica, sarebbe la responsabile dei forti terremoti verifcatisi nella
parte orientale dell’isola. A est, nelle vicinanze di Siracusa, nei fondali del
mar Ionio, il plateau degli Iblei continua fno alla scarpata Ibleo-Maltese che
delimita la piana abissale più profonda del Mediterraneo. In origine gli Iblei
erano un complesso vulcanico sottomarino la cui attività risale a milioni di
anni fa e si è ormai estinta, più antica di quella del monte Etna che dista
solo una cinquantina di chilometri. Le testimonianze dell’attività eruttiva si
trovano oggi nella roccia magmatica di colore scuro depositata soprattutto
nella parte settentrionale e orientale della catena. Nelle zone costiere si
trova una roccia sedimentaria più recente, un’arenaria calcarea che viene
denominata pietra bianca di Siracusa, detta nel sud-est della Sicilia petra
giuggiulena, ovvero pietra-sesamo, perché è facile che si sgretoli in granuli
di dimensioni simili ai semi della pianta omonima. Altrove, in Sicilia, la
stessa roccia è chiamata generalmente “tufo” e spostandosi tra gli Iblei assume
la denominazione del luogo in cui viene estratta, come la pietra di Modica e la
pietra di Comiso. A Ragusa, e in generale nell’altopiano ragusano, è nota la
“pietra pece”, di colore scuro, quasi nero, dovuto al calcare bituminoso.
Vittoria è, dopo Ragusa, il comune più popolato della provincia; è anche la
città più giovane, presenta una moderna struttura a scacchiera, con strade
larghe e rettilinee. Il suo territorio si sviluppa sull’omonima piana,
affacciata sul Canale di Sicilia. La città fu fondata su una pianura molto
fertile nota come “Boscopiano”. L’attività principale è, da secoli,
l’agricoltura, in particolare quella in serra che, nel corso degli anni, ha
caratterizzato totalmente il paesaggio: la lunga distesa di capannoni lungo la
costa è un’immagine “forte”, rappresentativa.
D’altronde a Vittoria, città delle primizie, è stato
edifcato il più grande mercato ortofrutticolo d’Italia. Nella parte più
interna, le campagne sono disseminate di bagli e palmenti e testimoniano la
grande diffusione della vite, come illustrato nella trattazione storica. Il
territorio più importante è la media collina nella quale i vigneti sono situati
a un’altitudine compresa tra 200 e 350 metri. Si tratta dell’areale Classico
del Cerasuolo di Vittoria, a forte dominante calcarea: oltre la metà dei suoli
è caratterizzata dalla famosa terra rossa, formatasi in prevalenza su substrato
calcarenitico e ricca di ferro. Un altro settore, che include Vittoria, è
compreso tra l’Ippari e il Dirillo e poggia su terreni fuviali, ciottolosi. Le
condizioni medie del comprensorio sono quelle tipiche del clima mediterraneo
caldo-arido. Rarissima la nebbia, così come il ristagno di umidità, forti le
escursioni termiche tra giorno e notte. Le contrade storiche più importanti per
la produzione sono Pettineo, Fossa del Lupo, Bastonaca, Bombolieri, Santa
Teresa.
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