6 giugno 2020
L'Italia e la nuova via della seta: l'ambizioso progetto cinese per sostituire gli USA nel controllo del mondo.
La nuova via della seta porta in Italia
L’Italia apre al progetto cinese “la
via della seta”, ma in tutta Europa la Cina sembra aver convinto soltanto un discusso soggetto: il ministro Di Maio!
L’Italia è quindi il primo paese
del G7 a firmare un simile documento d’intesa, e alle preoccupazioni espresse
da Washington e Bruxelles il governo ha replicato assicurando che si tratta di
un’intesa commerciale, non politica. Ma è davvero pensabile che gli enormi
investimenti che Pechino è pronta a elargire possano essere esenti da ricadute
politiche?
Lanciata nel 2013 dal presidente Xi
Jinping, la Belt and road initiative, o Nuova via della seta, è un gigantesco
progetto di rafforzamento della connettività sul continente euroasiatico, e
oltre. La cintura (belt) rappresenta l’asse terrestre tra la Cina e
l’Europa, mentre la via (road) è la rotta marittima tra il mar Cinese
meridionale e il Mediterraneo, passando per l’oceano Indiano e il canale di
Suez.
La Bri ha quindi una dimensione
spaziale molto chiara. Benché in teoria ormai ogni stato al mondo (dall’Africa
all’America Latina) possa partecipare all’iniziativa, sei sono i corridoi di
terra indicati come priorità: Cina-Mongolia-Russia; Bangladesh-Cina-Birmania;
Cina-Indocina; Cina-Pakistan; Cina-Asia centrale e occidentale (con prolungamento
in Europa); Cina-Kazakistan-Russia. Con il tempo, sono comparse sulle mappe
della Bri anche una rotta marittima verso il Pacifico e una rotta artica.
Secondo il governo cinese, la Bri è
un progetto sistemico per integrare in un disegno comune le singole strategie
nazionali di sviluppo, per sfruttare il potenziale dei mercati in Eurasia, per
creare domanda e posti di lavoro, e per incoraggiare gli scambi culturali e
accademici. Non rappresenta una sfida diretta all’ordine liberale costruito
dagli Stati Uniti e dall’occidente, in quanto si basa esplicitamente sul regime
del libero scambio, e presume l’esistenza di un’economia globale aperta – la
stessa che ha consentito alla Cina di svilupparsi
negli ultimi quarant’anni, diventando la seconda economia mondiale. Del
resto, le aziende cinesi (soprattutto i grandi conglomerati di stato, ormai
colossi internazionali) necessitano dei mercati mondiali, naturale sbocco per
collocare la sovracapacità produttiva, molto evidente in settori quali
l’acciaio e le costruzioni.
Non sorprende, quindi, che la Bri
preveda la realizzazione e la gestione di nuove infrastrutture, o
l’ammodernamento di quelle vecchie. Dalle strade alle vie ferroviarie ad alta
velocità, dai porti ai gasdotti, dai ponti agli hub logistici, non c’è grande
opera che possa essere a priori esclusa dalla Bri – per il loro finanziamento
la Cina ha creato anche una nuova banca multilaterale, la Banca asiatica
d’investimento per le infrastrutture (Aiib). In quanto progetto di
modernizzazione collaborativa, nelle intenzioni cinesi la Bri è basata
sull’idea di uno sviluppo sostenibile, in una cornice di partnership
mutualmente vantaggiosa.
La Commissione europea ha sottolineato l’assenza di
reciprocità per le aziende europee nell’accesso al mercato cinese.
Tuttavia,
i primi anni di attuazione della Bri hanno già evidenziato qualche criticità,
mostrando come l’esito win-win della cooperazione sia tutt’altro che scontato.
Innanzitutto, il Fondo monetario internazionale ha avvertito che in alcuni
piccoli stati (come il Montenegro o le Maldive) i progetti legati
alla Bri stanno rendendo insostenibile il debito pubblico. Ha fatto notizia il
caso del porto di Hambantota, in Sri Lanka, finito in mano ai cinesi perché il
governo di Colombo non era riuscito a onorare i suoi impegni finanziari. Nel 2018 in Malaysia, il nuovo governo di
Mahathir Mohamed ha sospeso il progetto dell’East coast rail
link, considerato troppo oneroso: potrebbe ora ripartire, ma su scala inferiore.
In secondo luogo, la proiezione
strategica della Cina pone importanti questioni relative a norme, standard, e
pari opportunità di accesso ai mercati. Nel caso della ferrovia
Budapest-Belgrado, per esempio, la Commissione europea ha costretto Budapest a
riconvocare l’appalto della sezione ungherese dell’opera, poiché il primo bando
sembrava violare
le norme comunitarie sugli appalti pubblici, favorendo aziende cinesi.
Più recentemente, la gara di appalto per la costruzione del ponte di Pelješac
sulla costa meridionale della Croazia (finanziata in massima parte da fondi
dell’Unione europea) è stata vinta dalla China road and bridge corporation
(Crbc), un conglomerato statale. Il concorrente austriaco che ha perso la gara
ha dichiarato che l’offerta
della Crbc era fuori mercato, e in quanto tale poteva solamente essere sussidiata
dallo stato cinese. Non bisogna dimenticare infine i costi
ambientali dei progetti infrastrutturali.
In effetti – stanchi probabilmente
del crescente gap tra la retorica e i fatti – nell’aprile 2018 ventisette
ambasciatori degli stati dell’unione a Pechino (escluso il rappresentante
ungherese, ma incluso quello italiano) hanno inviato una lettera
alla Commissione europea mettendo in guardia dal rischio di un
approccio troppo accomodante verso la Cina. La lettera era in realtà un corposo
rapporto che criticava il comportamento cinese per due aspetti principali.
Cominciava sottolineando una volta di più l’assenza di reciprocità per le
aziende europee nell’accesso al mercato cinese e agli appalti della Bri: per
ora infatti, la maggior parte delle opportunità di business è stata
colta da aziende cinesi, la cui struttura proprietaria spesso è opaca.
Inoltre, il documento segnalava che
– sfruttando l’asimmetria di potere – la Cina offre un suo format del
memorandum d’intesa. Gli ambasciatori consigliavano ai singoli
stati di discutere il testo prima di firmarlo. In ampi dettagli, e con molti
esempi, il rapporto mostrava come la Cina adotti un linguaggio apparentemente
non controverso che invece nella narrazione ufficiale della politica estera
cinese ha un preciso significato, non in linea con l’interesse nazionale di uno
stato europeo o dell’Ue nella sua interezza. Probabilmente consapevole di
questo aspetto, il governo italiano ha dichiarato che il memorandum firmato a
Roma – diversamente dagli altri tredici già firmati da altri stati membri – si
richiama esplicitamente a norme, regole e standard dell’Ue, nella speranza che
sia la Cina ad adeguarsi.
Un progetto globale
La Bri, in sintesi, non è solo una proposta commerciale: è un riordino dello
spazio. Lo spazio geografico a sua volta rappresenta un’intrinseca dimensione
della politica, perché riguarda la sovranità. Nel mondo multipolare in cui la
Cina vuole operare, Pechino vuole essere uno dei principali poli organizzativi
(nel senso descritto da John Ikenberry nel Leviatano
liberale), un hub attorno al quale ruotano scambi, commerci, flussi
finanziari, al centro di network complessi, flessibili e intercambiabili. La
sfida non è diretta ma indiretta. In quanto veicolo di riarticolazione dello
spazio e dell’ordine, la Bri è un mezzo con cui la Cina crea nuove “comunità di
pratiche” (oggi regionali, domani globali?) che non necessariamente si
conformano interamente ai princìpi, alle norme e alle procedure dell’ordine liberale,
che peraltro – come ha scritto Vittorio Emanuele Parsi in Titanic – sta già
naufragando.
Significativamente, mentre a Roma
esplodeva il dibattito sul memorandum d’intesa, a Bruxelles la Commissione e
l’alto rappresentante della politica estera dell’Ue – uscendo dall’ambiguità –
pubblicavano un comunicato
congiunto in cui la Cina è definita allo stesso tempo un partner
negoziale, un competitor economico (che persegue la leadership tecnologica), e
“un rivale sistemico che promuove modelli alternativi di governance”.
Mentre il governo italiano insiste
nel definire il documento come un’intesa commerciale che aprirebbe nuovi spazi
di mercato e di investimento per le imprese italiane in Cina, compie una
scommessa dall’esito non scontato. Il governo ama ricordare come la Germania,
la Francia e il Regno Unito registrino un interscambio commerciale con la Cina
assai superiore al nostro, dimenticando di dedurre che, se questi paesi
commerciano più di noi senza avere firmato alcuna intesa, forse le difficoltà
italiane sono dovute a debolezze del nostro sistema produttivo (o incapacità di
generare la domanda cinese). Se invece l’Italia – percepita come anello debole
del nucleo storico dell’Ue – invia con il memorandum un forte segnale, sperando
che questa concessione generi in cambio privilegi e condizioni più favorevoli
degli altri, l’intesa ha un forte significato politico, con implicazioni di non
poco conto.
L’economia è politica, soprattutto
in un paese leninista come la Cina, dove il
confine tra stato e mercato è molto labile: lo sa bene il Partito comunista
cinese, che ha inserito gli obiettivi della Bri nel suo statuto, ora condivisi
e sostenuti dall’Italia con la firma del memorandum.
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