6 novembre 2023

CERASUOLO DI VITTORIA.

 


Cerasuolo di Vittoria D.O.C.G.

60% Nero d’Avola
40% Frappato

 

Dalle campagne di Dorilli, tra il mare e i monti Iblei, conosciuti come luogo di eccellenza del food in Sicilia, nasce il Cerasuolo di Vittoria. Il nome dell’unica DOCG di Sicilia deriva da “cerasa”, la ciliegia in dialetto siciliano. È ottenuto dalle varietà autoctone Nero d’Avola e Frappato. Un vino unico, riconoscibile e indimenticabile per i suoi sapori giovanili e i profumi di ciliegia, fragola e melograno, dovuti alla particolarità dei suoli e del clima in cui sono coltivate le uve. Un vino che come pochi coniuga tradizione e piacevolezza del vino.

Diraspapigiatura seguita da 14 giorni di permanenza sulle bucce, fermentazione a 23 °C.

Cerasuolo, Frappato e Nero d’Avola: l’essenza dei vini di Vittoria

Seppur circoscritta a sole tre aziende (quattro se aggiungiamo la recente recensione di Valle dell’Acate), l’immagine dei vini dell’area di Vittoria esce ben delineata: nessuna presenza di toni surmaturi, estrazioni tanniche calibrate e gradi alcolici contenuti. Al di là delle momentanea prevalenza di una tipologia rispetto all’altra, si riesce quindi a ricavare l’impressione di un’enologia precisa e ben curata che preserva l’integrità del frutto e privilegia l’equilibrio, rinunciando probabilmente, ma consapevolmente, a qualche aspetto caratteriale meno controllabile.

Il CERASUOLO DI VITTORIA è un rosso di forte ed antica tradizione, che gioca la sua identità sul connubio fra la forza del Nero d’Avola e la gentilezza del Frappato, vitigno diffuso principalmente nell’area di Denominazione, la prima ed al momento unica DOCG sicilianaLA VINIFICAZIONE: Le uve, vendemmiate dopo la metà di settembre, vengono vinificate in acciaio con breve macerazione a temperatura controllata. Dopo la fermentazione malolattica in acciaio, il vino viene imbottigliato ed immesso in commercio circa un anno dopo la vendemmia.

Fondata da coloni greci nel 734 a.C., Siracusa era nell’VIII secolo a.C. una delle città più importanti dell’intera area mediterranea, solo qualche anno dopo sorsero Roma e Napoli, mentre in Grecia si istituivano le polis. Si tratta di uno dei momenti più alti della nostra civiltà. Alla città sicula si è sempre accostata la presenza del mitico Biblino, un vino dolce che, fno a qualche anno fa, si pensava fosse l’antenato dell’odierno Moscato di Siracusa, mentre recenti ricerche lo mettono in relazione con Gaglioppo e Frappato. In effetti si tratta presumibilmente di un vino dolce rosso originario del Libano, prodotto anche in Grecia e poi, appunto, nel siracusano. Dunque, la Sicilia sud orientale già allora aveva assunto una certa rilevanza nel panorama vitivinicolo. Sulle coste dell’area iblea i coloni siracusani fondarono, nel 598 a.C., Camarina, oggi sito archeologico alla foce del fume Ippari. La complessa disputa siciliana tra Fenici e Greci è annoverata nelle guerre greco-puniche tra il 600 e il 265 a.C., anno dell’arrivo dei Romani sull’Isola. Secondo Michajl Rostovcev, storico russo tra i massimi esperti di storia greca, romana e persiana, l’interesse dal punto di vista agricolo era distribuito in base alla differente vocazione dei popoli: i cartaginesi puntavano alla coltivazione del grano, i siracusani e i camarinesi continuavano un’intensa attività vitivinicola e olivicola. A Roma, intorno al 500 a.C., agli albori dell’età Repubblicana, i vini greci provenienti da Lesbo, dalla Grecia orientale e dalle coste turche erano considerati il meglio dell’enologia dell’epoca, allo stesso modo non tardarono a farsi conoscere quelli della Magna Grecia e, in particolare, della Sicilia sud orientale. I reperti archeologici di epoche successive documentano la grande attività di produzione del vino nelle aree aretusa e iblea, proprio in quelle zone furono ritrovate delle monete sulle quali erano impresse immagini di anfore per il trasporto del vino. A largo di Camarina e di Scoglitti (lo scalo marittimo di Vittoria), furono ritrovate delle anfore vinarie che testimoniano la produzione e il commercio del liquido verso Roma, la Gallia e la Spagna. A Pompei, sono stati reperiti alcuni contenitori di terracotta risalenti al II secolo a.C., sui quali era impressa la scritta Mesopotanium, “la terra compresa tra i due fumi”, l’Ippari e il Dirillo che segnano i confni dell’odierna zona del Cerasuolo di Vittoria. Non solo il vino ibleo, ma anche quello proveniente da tutta la provincia orientale, da Messina a Catania fno al Val di Noto (è maschile perché “Vallo”), era menzionato dai grandi storiograf e letterati dell’epoca, da Catone a Plinio, a Strabone, di quest’ultimo le entusiastiche testimonianze sul Mamertino e le motivazioni della bontà di tutti i vini della zona orientale: «Il fatto che tale regione è ricca di viti si potrebbe congetturare che dipenda dall’agro di Catania che, ricoperto di ceneri (vulcaniche), produce buon vino in abbondanza». Verso la fne dell’Impero Romano, in uno dei periodi più turbolenti della sua storia, durante il dominio vandalo, ostrogoto e bizantino, l’agricoltura subì un decadimento sostanziale, in particolare la viticoltura non vide progressi a differenza di quel che si verifcava nel resto d’Europa, dove il vino costituiva una delle migliori merci di scambio. Intorno all’800 d.C. arrivarono le conquiste arabe, uno dei momenti più importanti per la storia dell’Isola. Le innovazioni nel settore agricolo, in primis l’uso dell’acqua, sono ampiamente conosciute anche se la viticoltura non fu l’ambito favorito. Michele Amari, storico palermitano e Ministro della pubblica istruzione del Regno dal 1862 al 1864, studioso della Sicilia musulmana, scrisse: «I vigneti scemarono sotto la dominazione musulmana; e sì lentamente si rifornirono in due secoli, che la Sicilia faceva venir vini da Napoli verso la fne del XII». Nonostante la lungimirante politica agricola di Federico II (basti pensare alla distribuzione di terre incolte ai contadini per la coltivazione del grano), la situazione non migliorò, complicata dalla centralità del suo potere. Dal 1200 la viticoltura siciliana rimane in una posizione subalterna per almeno tre secoli, in particolare nella parte sud orientale, a causa della sua funzione di fornitrice di grano, la cui redditività era piuttosto bassa. La dominazione spagnola, col suo rapace fscalismo, fu incapace di risolvere il problema delle fnanze pubbliche e di far avanzare l’Isola da uno stato di forte arretratezza. Mentre in Europa si gettavano le basi delle grandi industrie vinicole francesi e spagnole, la Sicilia restava in una posizione di svantaggio. Le testimonianze del tempo sui vini siciliani sono scarse, ma se ne sancisce la bontà. Ne scrive Andrea Bacci nel suo De naturali vinorum historia (1596) riferendosi alla qualità dei vini dell’Etna, del siracusano e di Noto. Siamo nel punto nevralgico del nostro percorso storico. Nel 1606, la nobildonna Vittoria Colonna Henriquez, contessa di Modica, fondò Vittoria e immediatamente incentivò la produzione del vino concedendo privilegi a coloro i quali avessero piantato vigne: in quell’anno regalò, ai primi settantacinque coloni, un ettaro di terreno ciascuno a condizione che ne coltivassero un altro a vigneto, favorendo così un’enorme espansione nelle varie contrade del territorio. Per tutto il Seicento il vigneto vittoriese crebbe a dismisura. Il vino veniva esportato prima nelle altre città della contea di Modica e poi, attraverso il porto di Scoglitti e grazie alle navi trapanesi e mazaresi, anche a Malta e Marsiglia. La qualità dei vini del sud est è ampiamente trattata da Paolo Balsamo nel suoi appunti di viaggio attraverso la Contea di Modica (1808). L’abate asserisce che dalla campagna di Vittoria, ricca di vigneti, si produce un vino che considera il migliore tra quelli da pasto di tutta la Sicilia. Inoltre ci fornisce importanti informazioni sull’uvaggio del tempo: «Non è composto quasi di altre viti che di grossonero, di calabrese ed incomparabilmente più da frappato». Il forentino Domenico Sestini, trasferitosi a Catania come bibliotecario al servizio del principe di Biscari, fornì un’importante testimonianza sulla vitivinicoltura del ragusano nella lezione che tenne nel 1812 all’Accademia dei Georgofli sui vini di Vittoria, elogiandone la qualità e descrivendo i vitigni, il sistema di impianto e di coltivazione, la fertilità dei terreni, le modalità di vendemmia e vinifcazione. Dunque, da più parti, i vini di Vittoria e di Avola erano considerati tra i migliori, insieme ai Marsala. Tra l’altro, nella seconda metà dell’Ottocento si verifcò un ulteriore sviluppo economico e la città di Vittoria divenne una delle più foride e produttive della Sicilia. In questo periodo ci fu un massiccio processo di riconversione di migliaia di ettari, prima coltivati a grano, trasformati a frutteto e vigneto. A tale trasformazione contribuì la crescita della domanda di vino e il relativo aumento dei prezzi, complice il progresso tecnologico che rese più facile e redditizia la coltivazione. Il porto di Scoglitti fu potenziato per fare fronte alle richieste dei vini; nel 1860 l’esportazione dall’agro di Vittoria toccò i 300mila ettolitri (oggi ne vengono prodotti circa 15mila), in particolare verso la Francia che, nel frattempo, aveva subito i terribili danni della fllossera. La domanda aveva stimolato la creazione di nuovi impianti, al punto che vennero sradicati anche oliveti secolari. La fllossera non tardò ad arrivare: comparve in SSicilia nel 1880 in provincia di Caltanissetta, due anni dopo in provincia di Messina. Nel 1898 apparve anche a Salemi e Marsala, causando un forte periodo di crisi. A Catania, fu fondata, nel 1881, una scuola di viticoltura ed enologia, cui fecero seguito le Regie Cantine e i Regi Vivai di Viti americane. Un’utilissima attività di ricerca e sperimentazione fu svolta anche dalla Regia Cantina Sperimentale di Noto che sorse nel 1889. La Cantina gestiva gli stessi vivai di Noto, di Siracusa e Vittoria e si occupò di ricostruire i vigneti distrutti dall’afde, coadiuvando l’attività con conferenze, corsi pratici, distribuzione gratuita e vendita sotto costo di barbatelle innestate. Vittoria pagò a caro prezzo la scelta monocolturale; migliaia di piccoli proprietari caddero in rovina, totalmente privi di capitale per procedere ai reimpianti, la ricostruzione avvenne soprattutto grazie alle grandi famiglie proprietarie terriere. Dopo il 1891 la caduta della domanda di vini da taglio rese antieconomico il ripristino dei vigneti danneggiati e la superfcie subì un decremento, i vigneti francesi, austriaci, ungheresi erano stati ricostruiti, i mercati si chiusero e le esportazioni diminuirono toccando il punto più basso nel 1907. Da quel momento, la Sicilia strutturò la sua produzione sui vini da taglio e mezzo taglio, togliendo spazio a zone vocate e a vitigni adatti (nelle contrade di Vittoria il Frappato in particolare) a dare vini fni da pasto.

Ho fatto cenno alla crescente esportazione vinicola siciliana, quintuplicata tra il 1870 e il 1882. L’eccezionale impennata — i cui centri principali erano Messina, Siracusa, Catania e Trapani — aveva carattere essenzialmente congiunturale. Era guidata dallo straordinario incremento della domanda proveniente dal mercato internazionale e, in particolare, da quello francese. La crescente dipendenza del settore dai passeggeri andamenti del mercato estero, nonostante il ruolo non secondario di quello nazionale, sollecitava gli osservatori più attenti ad avanzare critiche, perplessità e denunce sul tema della qualità del prodotto. Le preoccupazioni erano manifestate dallo stesso Ministero dell’Agricoltura circa la composizione della produzione vinicola, formata in gran parte da vini da taglio diretti specialmente in Francia. Nella provincia di Siracusa tre erano i principali vini da taglio prodotti: il Siracusa considerato uno dei migliori, di grande corpo, profumato, vellutato, il Pachino, sotto il quale nome andavano tutti i vini prodotti nel territorio di Noto, Avola e Pachino, lo Scoglitti prodotto nella piana di Vittoria, tra i comuni di Chiaramonte, Comiso e Scoglitti. Si prediligevano le zone più calde, vicine al mare. I vini da pasto, nonostante non fossero determinanti nell’economia isolana, mostravano qualità che ancora oggi li rendono famosi nel mondo. Basti pensare all’Etna, al Faro e, appunto, al Cerasuolo di Vittoria. Negli anni cinquanta i vini forti erano ancora destinati a rimpolpare quelli prodotti nel Nord Italia e in Francia. I produttori si mossero verso il potenziamento della produzione che sembrava essere l’unica possibilità di mercato. Questa scelta condizionò la ripresa del settore vitivinicolo, travagliato da problemi la cui portata si era fatta negli anni del Fascismo e della Guerra, sempre più grave. In ogni caso, per incremento di impianti, Vittoria si collocava tra le prime zone, insieme alla piana di Catania, a Milazzo, e all’Etna. Per reazione, negli anni settanta, si è arrivati a pensare che la salvezza fosse rappresentata dalle Cantine Sociali, pulite, raffreddate, enologicamente a norma, rispetto ai Bagli poco attrezzati, legati a una fattura dozzinale di vini da taglio. Si era posta la necessità di orientare la produzione ma anche i consumi. L’export di sfuso è passato da quasi due milioni di ettolitri del 1999 a poco più di 150 mila del 2009, con una perdita del 90%. La Francia (dove lo sfuso è ancora oggi usato per correggere la gradazione alcolica e il colore, in particolare nel bordolese), che era il mercato principale fno agli anni novanta, oggi compra vino spagnolo, più economico di quello italiano. E anche se nel frattempo è più che raddoppiato l’export siciliano in bottiglia, la crisi è evidente. Soprattutto nel trapanese, che con una superfcie vitata di quasi 60mila ettari è il secondo distretto vinicolo in Europa per dimensioni, dopo quello di Bordeaux, e da solo copre la metà della produzione siciliana. Soldati affronta la questione vini da taglio con la sua sagacia quando, in occasione del primo viaggio di Vino al Vino del 1968 si reca nelle province di Catania, Siracusa e Palermo. Riporta aneddoti spassosi alla ricerca di vini che non avessero un’alcolicità – lui, da bravo piemontese ci tiene a segnalarlo – così elevata, e comunque ci fornisce avvincenti testimonianze di carattere socio-politico-culturale. Ecco la parte più incalzante del suo intervento: «Lo scopo della legge sul non zuccheraggio dei vini era ben altro, era molto semplicemente quello di aiutare i baroni viticoltori dell’Italia meridionale in particolar modo di Puglia e Sicilia a vendere i loro mosti, provenienti da terre bruciate dal sole e non irrigate, ricchi di zucchero generatore di alcool. Nacque così lo scongiurato “meridionale” come lo chiama il De Marchi, che cita prima sul romanzo “Giacomo l’idealista” del 1897. Nacque il famoso taglio che tanta parte ha nella decadenza dei nostri vini e soprattutto delle nostre capacità di gustare il vino. Una vera rovina, sia per i vini settentrionali e centrali, che nel taglio si alteravano, sia per gli stessi vini meridionali che fatalmente cominciarono ad essere conosciuti dai consumatori del nord solo attraverso l’impiego che se ne faceva nel taglio, mentre vinifcati sui loro posti e con uve vendemmiate non così tardi avevano tutt’altro sapore. La tradizione meridionale infatti voleva che le uve fossero raccolte non come accade dopo la promulgazione della legge e cioè preoccupandosi prima di tutto del raggiunto grado di dolcezza, ma vendemmiate prima, a tempo giusto, quando non sono ancora così cariche di zucchero». Tra l’altro, ancora oggi, il grado Babo delle uve e dei mosti e il grado alcolico nei vini sono ancora parametri fondamentali per stabilirne il prezzo.

Rispetto ai precedenti approfondimenti sul Meridione vitivinicolo, abbiamo considerato (almeno) due vitigni. Nelle altre occasioni abbiamo cercato di rilevare la relazione tra una varietà e uno o più territori per provare a comprenderne il temperamento. La bellezza del vino del sud est siculo è legata a questo straordinario equilibrio delle parti, una congiunzione astrale: Nero d’Avola e Frappato, così sovraesposto il primo tanto da divenire “simbolo”, quanto esclusivo e rivelatorio il secondo. Il nero d’Avola trae benefcio da questi luoghi, le condizioni pedoclimatiche gli conferiscono un’eleganza tutta particolare. Ho spesso sentito dire: «Il nero d’Avola, qui, sta bene sul calcare». Limitandoci al nostro luogo d’interesse, il vittoriese, i 190 ettari delle denominazioni “Cerasuolo” e “Cerasuolo classico” vedono prevalente il Nero d’Avola seguito di poco dal Frappato. Questa situazione rispecchia la proporzione come da disciplinare (60% Nero d’Avola e 40% Frappato, che può arrivare al 50%). L’origine del Frappato è riconducibile al vittoriese dove è coltivato dal 1600, tuttavia alcuni ampelograf gli conferiscono una derivazione spagnola. Nella zona calatina è conosciuto come Nerocapitano. È presente quasi esclusivamente a Vittoria e nella valle dell’Acate, ma si trova anche in altre zone, tra cui Noto. Dopo un periodo di trascuratezza è in forte rivalutazione. Il grappolo è medio-grande, l’acino rotondo e dalla buccia spessa e pruinosa, blu violacea; è una varietà piuttosto tardiva. Il Frappato produce un vino di un colore mediamente più chiaro rispetto al Nero d’Avola. Da sempre ha rappresentato l’archetipo del vino da pasto, dalla fnezza peculiare. Il nome riporta alle foglie particolarmente dentellate. Matura intorno alla fne di settembre. L’etimologia del Nero d’Avola basterebbe già a rendere avvincente la sua storia: compare in alcuni scritti del 1500 ed è registrato nel Catalogo Nazionale delle Varietà della Vite come Calabrese. Si tratta di una di quelle situazioni linguistiche complicate dalle incursioni dialettali, ovvero l’italianizzazione del termine calavrisi, poi calabrese: calavrisi, uva di Avola oppure “calata, venuta da Aurisi” da Avola (Aurisi è il vecchio termine per defnire Avola); nel 1800 viene associato al paese costiero in provincia di Siracusa. È senza dubbio il vitigno più rappresentativo della Sicilia, ha la capacità di concentrare grandi quantità di zucchero. Riscuoteva molto successo come vino da taglio o da bere giovane: fno a qualche decennio fa, dal porto di Marzamemi partivano enormi cisterne di vino verso Toscana, Piemonte e Francia (dove era noto come vin medecine). Il grappolo è medio-grande, alato, non molto compatto, l’acino ha una forma leggermente allungata e una buccia di medio spessore di colore bluastro con poca pruina. Il succo diventa subito violaceo, molto zuccherino e conserva buona acidità. A Vittoria matura nella seconda decade di settembre. Durante le visite è emerso un aspetto peculiare: l’età media del vigneto vittoriese è piuttosto bassa, poche vigne superano i cinquant’anni e, inoltre, un numero esiguo di produttori si preoccupa di praticare gli innesti in campo e la selezione massale.

Senza dubbio l’areale di Vittoria è uno dei più interessanti terroir del bacino del Mediterraneo. I motivi sono: la terra, rossa e bruna, il calcare bianco, la scarsa profondità dei suoli, un clima mitigato dal mare, sempre ventilato, con estati certamente caldissime ma con una discreta riserva d’acqua legata proprio al principale componente del sottosuolo. Ricordo chiaramente l’umidità di un frammento di calcare bianco scintillante prelevato durante lo scasso di un vigneto, nella famosa contrada Bastonaca, in compagnia di Guglielmo Manenti, tra i più promettenti produttori di Vittoria. Il segreto risiede proprio nella capacità di cedere l’acqua da parte della pietra, in una zona dominata da un sottile e soffice strato di terra rossa. Per confrontare il temperamento del Nero d’Avola e del Frappato nelle zone adiacenti, ho visitato alcuni produttori tra San Michele di Ganzaria, Caltagirone e il Val di Noto. Prima di defnire il plateau ibleo, compresa la stessa Vittoria, guardiamo da vicino i Monti Iblei, la cui energia è la vera forza di questa terra. Stiamo parlando del più importante altopiano della Sicilia sud orientale, compreso tra le province di Ragusa, Siracusa e Catania. Il monte Lauro, la cima più alta con quasi mille metri di altezza, segna il confne tra il siracusano e il ragusano. Si tratta di un massiccio calcareo-marnoso bianco conchiglifero del Miocene (tra 23 e 5 milioni di anni fa), l’altopiano è stato inciso da numerosi fumi e torrenti che hanno generato le cosiddette “cave” degli Iblei. È evidente il profondo fenomeno carsico, specialmente nella parte orientale dell’area, data la presenza di stalattiti e stalagmiti. La zona iblea, come quella maltese e quella pugliese, fanno parte della placca africana, che proprio qui ha il suo punto di scontro con la placca euroasiatica. Le “lastre” calcaree affioranti, tra l’altro, sono un leitmotiv comune a tutte queste zone, compresa quella istriana. La micro-placca denominata siculo-iblea, intrappolata tra quella africana e quella euroasiatica, sarebbe la responsabile dei forti terremoti verifcatisi nella parte orientale dell’isola. A est, nelle vicinanze di Siracusa, nei fondali del mar Ionio, il plateau degli Iblei continua fno alla scarpata Ibleo-Maltese che delimita la piana abissale più profonda del Mediterraneo. In origine gli Iblei erano un complesso vulcanico sottomarino la cui attività risale a milioni di anni fa e si è ormai estinta, più antica di quella del monte Etna che dista solo una cinquantina di chilometri. Le testimonianze dell’attività eruttiva si trovano oggi nella roccia magmatica di colore scuro depositata soprattutto nella parte settentrionale e orientale della catena. Nelle zone costiere si trova una roccia sedimentaria più recente, un’arenaria calcarea che viene denominata pietra bianca di Siracusa, detta nel sud-est della Sicilia petra giuggiulena, ovvero pietra-sesamo, perché è facile che si sgretoli in granuli di dimensioni simili ai semi della pianta omonima. Altrove, in Sicilia, la stessa roccia è chiamata generalmente “tufo” e spostandosi tra gli Iblei assume la denominazione del luogo in cui viene estratta, come la pietra di Modica e la pietra di Comiso. A Ragusa, e in generale nell’altopiano ragusano, è nota la “pietra pece”, di colore scuro, quasi nero, dovuto al calcare bituminoso. Vittoria è, dopo Ragusa, il comune più popolato della provincia; è anche la città più giovane, presenta una moderna struttura a scacchiera, con strade larghe e rettilinee. Il suo territorio si sviluppa sull’omonima piana, affacciata sul Canale di Sicilia. La città fu fondata su una pianura molto fertile nota come “Boscopiano”. L’attività principale è, da secoli, l’agricoltura, in particolare quella in serra che, nel corso degli anni, ha caratterizzato totalmente il paesaggio: la lunga distesa di capannoni lungo la costa è un’immagine “forte”, rappresentativa.

D’altronde a Vittoria, città delle primizie, è stato edifcato il più grande mercato ortofrutticolo d’Italia. Nella parte più interna, le campagne sono disseminate di bagli e palmenti e testimoniano la grande diffusione della vite, come illustrato nella trattazione storica. Il territorio più importante è la media collina nella quale i vigneti sono situati a un’altitudine compresa tra 200 e 350 metri. Si tratta dell’areale Classico del Cerasuolo di Vittoria, a forte dominante calcarea: oltre la metà dei suoli è caratterizzata dalla famosa terra rossa, formatasi in prevalenza su substrato calcarenitico e ricca di ferro. Un altro settore, che include Vittoria, è compreso tra l’Ippari e il Dirillo e poggia su terreni fuviali, ciottolosi. Le condizioni medie del comprensorio sono quelle tipiche del clima mediterraneo caldo-arido. Rarissima la nebbia, così come il ristagno di umidità, forti le escursioni termiche tra giorno e notte. Le contrade storiche più importanti per la produzione sono Pettineo, Fossa del Lupo, Bastonaca, Bombolieri, Santa Teresa.

 

  


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